
Per anni, la ricerca scientifica di eccellenza è stata sinonimo di Harvard, Stanford, Oxford, MIT. I grandi nomi occidentali hanno dominato il panorama accademico, generando innovazione, brevetti e premi Nobel, ma qualcosa è cambiato, e non è successo ieri. Negli ultimi dieci anni, la Cina ha costruito in silenzio un impero scientifico. Un’inversione di paradigma che si legge chiaramente nel Nature Index, che dal 2016 monitora la qualità e la quantità dei contributi scientifici su 145 riviste di riferimento.
Nel 2025, otto delle prime dieci istituzioni al mondo per pubblicazioni di alto livello sono cinesi. Harvard è rimasta sola a rappresentare gli Stati Uniti nella top ten, mentre Oxford e Cambridge sono uscite già dal 2022. A guidare il cambiamento, la CAS (Accademia Cinese delle Scienze), ma anche università “nuove” nel panorama mondiale come Tsinghua, Peking University e Zhejiang.
La Cina non ha lasciato nulla al caso. Dal 2012 al 2023, la spesa pubblica in Ricerca e Sviluppo è cresciuta in media del 9% l’anno in termini reali, superando nel 2023 Stati Uniti e Unione Europea se si considera il potere d’acquisto. Secondo dati OECD, nel 2023 la Cina ha investito circa 676 miliardi di dollari in R&S (pubblica e privata), contro i 711 miliardi degli Stati Uniti, ma con una parità di potere d’acquisto che rende la cifra cinese superiore in termini reali. Inoltre, oltre il 2,5% del PIL cinese è oggi destinato alla ricerca, in linea con i target fissati nei piani quinquennali del Partito Comunista. Il numero di ricercatori attivi ha superato i 2 milioni, rendendo la Cina il paese con la forza lavoro scientifica più ampia del mondo.
Un ruolo cruciale è stato giocato dal rientro dei haigui (letteralmente “tartarughe marine”) gli scienziati cinesi tornati dopo una formazione o una carriera all’estero. Secondo il Ministero dell’Istruzione cinese, oltre 600.000 studenti cinesi all’anno studiano all’estero, ma oggi il 75% di loro fa ritorno, attratto da stipendi competitivi, infrastrutture all’avanguardia e un forte sostegno politico. Un’inversione netta rispetto agli anni 2000, quando molti rimanevano in Occidente. Alcuni esempi sono emblematici, come Liang Wenfeng, fondatore di DeepSeek, colosso emergente dell’intelligenza artificiale, è rientrato dopo studi in Canada; la stessa Università di Zhejiang ha riportato a casa decine di talenti da Berkeley, ETH e MIT.
La Cina eccelle in settori chiave come chimica, ingegneria, scienza dei materiali, intelligenza artificiale, computer science e fisica quantistica. Nel campo della chimica, ad esempio, è prima al mondo sia per numero di articoli scientifici che per brevetti internazionali. In ingegneria e scienze dei materiali domina nella produzione di tecnologie avanzate per l’energia e i semiconduttori. Nell’intelligenza artificiale, è seconda solo agli USA per numero di pubblicazioni alle principali conferenze globali come NeurIPS, ICLR, CVPR. I progressi nella fisica quantistica, con progetti come il satellite Micius, dimostrano che non si tratta solo di quantità, ma di capacità d’avanguardia.
Restano tuttavia aree dove il dominio è ancora occidentale: biomedicina, genomica, neuroscienze. Non a caso, solo il 20% delle riviste selezionate per il Nature Index riguarda medicina e scienze biologiche, mentre chimica e fisica, in cui la Cina eccelle, rappresentano più della metà. Se si guarda esclusivamente alle riviste Nature e Science, le più prestigiose a livello globale, la classifica cambia: il CAS è l’unica istituzione cinese nella top five, mentre Harvard, Stanford e MIT tornano in cima. Questo dimostra che l’eccellenza mediatica e reputazionale è ancora parzialmente legata all’Occidente, ma la distanza si riduce ogni anno.
Secondo Elsevier e Clarivate, la Cina è il primo paese al mondo per numero totale di articoli scientifici pubblicati ogni anno, con circa 780.000 articoli nel 2023 contro i 550.000 degli Stati Uniti. Anche il numero di articoli nel top 1% per citazioni, segnale della qualità dell’impatto, ha visto la Cina superare l’Occidente nel 2022. Tuttavia, il potere accademico non è solo questione di numeri. è questione di influenza culturale, di lingua scientifica, di standard di revisione e soprattutto di attrattività globale. E qui, nonostante i progressi, la Cina fatica ancora a diventare una vera meta per studenti e ricercatori stranieri, solo il 2% dei docenti nelle principali università cinesi è di nazionalità non cinese, contro il 20-30% di Stanford o Cambridge.
E come sempre, non mancano le critiche, alcune indagini internazionali hanno denunciato pressioni sui ricercatori per aumentare il numero di pubblicazioni, episodi di plagio e manipolazione delle citazioni, e una tendenza a incentivare la quantità più che l’innovazione dirompente. Inoltre, la libertà accademica resta un tema sensibile: molti studiosi evitano ricerche in campi politicamente delicati, come cambiamento climatico, salute pubblica, dissenso sociale. Un’altra debolezza è la scarsa interdisciplinarità e la lentezza nella traslazione industriale della ricerca, ancora troppo centrata sulla pubblicazione e meno sull’impatto pratico.
Il secolo scorso ha visto l’egemonia scientifica americana. Il XXI si apre con un bipolarismo competitivo tra Cina e Stati Uniti, in cui l’Europa, sempre più divisa e sottofinanziata, rischia il ruolo di comprimaria. Il Nature Index racconta solo una parte di questa trasformazione, ma dietro i numeri, c’è una realtà innegabile, ovvero che la Cina non è più il laboratorio del mondo, è diventata uno dei suoi centri di pensiero. E questo, nel lungo periodo, potrebbe contare più di ogni altro primato economico o militare, il cosiddetto softpower.