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Cosa chiedono (e non chiedono) gli italiani a ChatGpt

beppegrillo.it - Luglio 1, 2025

L’intelligenza artificiale sta cambiando il nostro rapporto con la tecnologia. Tra tutte le sue applicazioni, i chatbot sono ormai compagni digitali invisibili ma sempre più presenti nella vita quotidiana. I chatbot, soprattutto quelli generativi, vengono ormai usati per scrivere mail, cercare informazioni, studiare, pianificare viaggi, risolvere dubbi personali e persino per avere un momento di conforto. Ma quanti li usano davvero ogni giorno? E per fare cosa?

Secondo Comscore, ad aprile 2025 oltre 11 milioni di italiani hanno utilizzato ChatGPT, rendendolo il chatbot più usato nel Paese. In termini percentuali, si parla del 28 % degli utenti internet italiani, un dato che mostra un livello di penetrazione ormai significativo anche al di fuori delle cerchie specialistiche. Il tempo trascorso su ChatGPT è cresciuto del 118 % rispetto ai mesi precedenti, a testimonianza di un utilizzo sempre più frequente e profondo. Ma l’aspetto forse più sorprendente è che il 75 % di chi usa ChatGPT lo preferisce a Google per effettuare ricerche quotidiane. Non solo uno strumento “intelligente”, ma un vero sostituto del motore di ricerca tradizionale, capace di dare risposte sintetiche, dirette, contestualizzate.

Una ricerca Ipsos-Google condotta nel 2024 conferma che i chatbot stanno diventando parte integrante della routine digitale. Il 71 % degli italiani intervistati li utilizza per scopi lavorativi: per scrivere testi e mail, risolvere problemi, riassumere contenuti, semplificare concetti complessi e generare idee. Anche nella sfera personale sono ampiamente usati per cercare informazioni (68 %), gestire viaggi e acquisti (54 %), o come supporto nello studio e nei compiti (53 %). Il confine tra assistente virtuale e motore di conoscenza personalizzato si fa sempre più sfumato.

Ma quanto è quotidiano questo uso? Qui i numeri si ridimensionano. La Banca d’Italia, nella sua indagine sulle famiglie, rileva che solo il 10 % degli italiani utilizza regolarmente l’IA generativa, inclusi i chatbot, su base settimanale, mentre un più ampio 26 % ne ha fatto uso almeno una volta nell’anno. La familiarità è alta, ma l’adozione abituale è ancora in fase di maturazione, complice un digital divide che penalizza le fasce d’età più avanzate e le regioni meno connesse. È però interessante osservare che tra i più giovani (15-24 anni) l’uso dei chatbot è molto più frequente: molti li integrano nelle ricerche scolastiche o universitarie, li usano per tradurre testi, sintetizzare argomenti, preparare presentazioni. In altre parole, per fare da “copilota” allo studio.

Anche le finalità si stanno ampliando. I chatbot non sono più soltanto fonti di risposte, ma diventano strumenti di confronto, di sollievo emotivo, persino di compagnia. Alcuni utenti dichiarano di usarli per ragionare su problemi personali, trovare incoraggiamento, o semplicemente mettere in ordine i pensieri. Non è raro che si chieda a ChatGPT: “Che decisione dovrei prendere?”, o “Come posso affrontare questa situazione?”. Pur non sostituendosi a un aiuto psicologico professionale, i chatbot offrono un ascolto privo di giudizio, continuo e sempre disponibile, h24.

La creazione di contenuti è un altro ambito in espansione. Oltre il 30 % degli italiani, secondo ANSA-Ipsos, ha già usato l’intelligenza artificiale generativa per creare immagini, e una percentuale simile lo fa per generare testi. Il chatbot diventa così anche uno strumento creativo: scrive poesie, sceneggiature, slogan pubblicitari, e-mail promozionali. Il boom degli strumenti integrati (come Copilot di Microsoft o l’AI nei nuovi iPhone con “Apple Intelligence”) contribuirà nei prossimi mesi a rendere questi usi ancora più naturali e diffusi.

Accanto a questa moltitudine di richieste pratiche, però, esistono domande che non vengono rivolte all’IA. Restano ai margini i grandi interrogativi legati alla sfera esistenziale, morale o emotiva: “Chi sono?”, “Ho fatto bene?”, “Perché sto male?”, “Cosa conta davvero nella vita?”. Le persone esitano a porle non solo per sfiducia nella risposta, ma perché sentono che certi spazi dell’interiorità non possono essere restituiti da un algoritmo. Si evita di affidare all’IA ciò che riguarda il lutto, la fede, l’amore, la colpa, la vergogna e il perdono. E in fondo è questo che rende i chatbot così potenti e così limitati allo stesso tempo. Ci aiutano a fare ma ancora non riescono ad accompagnarci nel sentire (per fortuna!).

In definitiva, oggi in Italia milioni di persone usano i chatbot, in modo ancora intermittente, chi li scopre tende a integrarli in molteplici aspetti della propria vita digitale, ma manca ancora una vera alfabetizzazione di massa. I giovani e i lavoratori più digitalizzati fanno da apripista, mentre una larga fascia della popolazione si muove ancora con cautela, tra entusiasmo e diffidenza. La direzione però è tracciata, i chatbot stanno diventando la nuova interfaccia tra le persone e il sapere e, come ogni rivoluzione tecnologica, sarà la capacità di accesso, consapevolezza e inclusione a determinare chi ne beneficerà davvero.

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