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Il pranzo di Natale inquina come un volo per New York

beppegrillo.it - Dicembre 10, 2023

di George Monbiot – Le cifre erano così incredibili che mi sono rifiutato di crederci. Le ho trovate nascoste in una nota a piè di pagina, e ho pensato inizialmente che fossero un errore di stampa. Per questo ho controllato la fonte, ho scritto alla persona che per prima le ha pubblicate e ho seguito le citazioni. Con mio stupore, sembrano corrette.

1 Kg di proteine di manzo prodotto in una fattoria di collina britannica può generare l’equivalente di 643 chili di anidride carbonica. 1Kg di proteine di agnello prodotto nello stesso luogo può generarne 749 chili. 1 Kg di proteine provenienti da entrambi gli animali, in parole povere, provoca più emissioni di gas serra di un passeggero che vola da Londra a New York.

Si tratta dell’opzione peggiore, e i dati vengono da un allevamento i cui terreni hanno un alto contenuto di carbonio. Ma i numeri che emergono da uno studio più ampio non sono particolarmente rassicuranti: in media potete scambiare il vostro volo per New York con circa 3 Kg di proteine d’agnello prodotti in una fattoria di collina inglese o gallese. Dovreste mangiare 300 Kg di proteine di soia per avere lo stesso impatto ambientale.

Quando scegliamo il nostro pranzo di Natale, o facciamo qualsiasi altra scelta, crediamo di prendere decisioni razionali e avvedute. Ma quel che sembra giusto talvolta non lo è affatto. In questo caso, proprio quegli elementi che siamo stati spinti a considerare positivi (gli animali che vagano liberi nelle montagne, curati da pastori dalle mani sapienti, senza mostruosità di cemento o acciaio o nessuna delle altre brutture degli allevamenti intensivi moderni) hanno un impatto ambientale incredibile.

Le cifre sono così elevate perché questa forma di allevamento è particolarmente improduttiva. Per allevare un agnello serve un ampio terreno spoglio e concimato. L’animale deve muoversi nelle colline per trovare il cibo, bruciando più grassi e producendo più metano di quanto farebbe una bestia che vive in una stalla.

Quel che è buono per gli animali che vivono in fattoria è spesso negativo per la natura. La crudeltà dell’allevamento intensivo al chiuso è bilanciata dai danni dell’allevamento estensivo all’aperto. L’allevamento di maiali e polli liberi, praticato ai livelli attuali, può essere disastroso per l’ambiente. I nitrati e i fosfati talvolta possono passare dai recinti ai fiumi. A meno che gli allevamenti abbiano una bassa densità o che gli animali siano tenuti su terreni ben drenati, i maiali tendono a consumare il suolo: un mio amico descrive alcune delle fattorie che ha osservato come una miniera suina a cielo aperto.

Si può aumentare la produzione, il che significa meno gas serra per chilo di carne prodotto, somministrando agli animali ormoni e antibiotici. Ma anche questo ha un costo. Come ha avvertito questa settimana il direttore della Antibiotic research Uk ormai è quasi troppo tardi per prevenire una crisi mondiale di superbatteri. Questo è dovuto in parte al fatto che degli allevatori senza scrupoli hanno imbottito i loro animali, per aumentarne il peso, con l’antibiotico colistina, l’ultima grande speranza contro i batteri resistenti.

Ma di tutte le forme di produzione, la più attraente è una delle peggiori. L’allevamento in collina non solo contribuisce in maniera assolutamente sproporzionata ai cambiamenti climatici, ma inquina anche i nostri corsi d’acqua, aumentando il rischio di pericolose alluvioni, e distrugge quelli che altrimenti sarebbero i nostri rifugi naturali: i grandi altopiani vuoti, nei quali l’attività economica è sostenuta solo grazie a generosi sussidi. Risulta difficile pensare a una qualsiasi altra attività umana con un più alto rapporto tra distruzione e produzione economica.

I miei amici del settore mi accusano di essere un nemico degli allevatori. Ed è vero che ne sottolineo il lato oscuro, soprattutto perché, a quanto pare, ci sono davvero pochi giornalisti disposti a trattare l’argomento. Ma non ho un odio viscerale per l’allevamento, semmai il contrario. Visitando una fattoria a Exmoor la settimana scorsa, mi sono ricordato di tutta la bellezza dell’allevare pecore. L’idillio arcadico, una concezione della vita dei pastori (sia nella teologia del Vecchio Testamento che nella poesia bucolica greca) come luogo di innocenza e purezza, un rifugio dalla corruzione della città, è ancora forte tra noi. Ma continuare a coltivare questa fantasia nel mezzo di una crisi così complessa – in cui si sommano la catastrofica riduzione della fauna selvatica, alluvioni devastanti ma evitabili e sconvolgimenti climatici – mi pare un capriccio grande e costoso.

Per quanto riguarda il consumo di alimenti locali, credo che a volte abbia senso: aiuta a creare un senso di appartenenza, a capire il luogo, aspetti che non vanno sottovalutati. Quando compriamo frutta e verdura di stagione da produttori locali, è una cosa giusta anche per l’ambiente.

Ma tendiamo a sovrastimare i chilometri percorsi dal cibo e a sottovalutare altri tipi d’impatto. In media, il trasporto rappresenta solo l’11 per cento delle emissioni di gas serra dell’industria alimentare. Legumi che arrivano dall’altra parte del mondo possono avere un impatto molto più basso della carne prodotta qui.

Uno studio pubblicato alcuni giorni fa suggerisce che sostituire la carne con le verdure danneggerebbe l’ambiente. Se si considerano le calorie, coltivare lattuga produce più gas serra che allevare maiali. Ma questo significa solo che la lattuga ha poche calorie. Una persona dovrebbe mangiarne 15 chili per soddisfare il proprio fabbisogno energetico giornaliero, il che sarebbe sensato solo per un coniglio di duecento chili. Come mostra un altro studio, “venti porzioni di verdure producono meno emissioni di gas serra di una porzione di manzo”.

Uno studio pubblicato sul Climatic Change Journal ritiene che, man mano che gli abitanti della Terra adottano una dieta occidentale, il metano e l’ossido di azoto prodotti dall’allevamento potrebbero arrivare all’equivalente di 13 miliardi di tonnellate di anidride carbonica all’anno entro il 2070. Si tratta di più di quanto tutte le attività umane possano produrre senza superare un aumento della temperatura globale di due gradi. Lo sconvolgimento climatico appare inevitabile, a meno che non cambiamo tutti la nostra alimentazione.

Questo, più di tutto, significa sostituire la maggior parte delle proteine animali che mangiamo con proteine vegetali. Non è una cosa dolorosa, a meno che noi non la rendiamo tale. Molti britannici erano soliti mangiare legumi ogni giorno. Lo chiamavano pease pudding, pease pottage o pea soup. Come nell’Asia del sud, i suoi ingredienti variavano di luogo in luogo e di stagione in stagione. Si tratta solo di un alimento di una dieta che offre una grande varietà, senza distruggere la grande varietà della natura.

Non sto dicendo che non dovreste più mangiare carne o altri prodotti di origine animale. Sto solo dicendo che dovremmo tutti mangiare molto meno. Limitate l’abbuffata a Natale. E anche in quel caso, scegliete con cura.

Questo articolo è stato pubblicato dal The Guardian, il 23 Dicembre 2015.

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