
Con un ordine esecutivo firmato il 24 aprile, Donald Trump ha dato via libera all’estrazione mineraria sui fondali oceanici, puntando a garantire agli Stati Uniti una nuova fonte di minerali strategici come nichel, rame, cobalto e manganese. La decisione riguarda non solo la zona economica esclusiva americana, ma anche le acque internazionali, bypassando l’Autorità Internazionale dei Fondali Marini (ISA) e sfidando il quadro di norme ancora in fase di definizione previsto dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS).
Nel mirino c’è la vasta zona Clarion-Clipperton, nel Pacifico settentrionale, che potrebbe contenere risorse minerarie superiori a tutte le riserve terrestri conosciute. L’amministrazione Trump punta a rafforzare la sicurezza nazionale, riducendo la dipendenza da fornitori esteri, in particolare la Cina, oggi leader nella produzione di terre rare. L’obiettivo dichiarato è anche creare fino a 100.000 nuovi posti di lavoro entro dieci anni.
Tra i primi a beneficiare della nuova politica c’è The Metals Company (TMC), società canadese attiva nella prospezione di noduli polimetallici, che ha visto il valore delle proprie azioni salire di quasi il 50% in poche ore.
Ma la corsa agli abissi solleva forti preoccupazioni ambientali. L’attività mineraria in acque profonde infatti è oggi sospesa in attesa di regolamenti condivisi, e più di venti Paesi, tra cui Canada, Regno Unito e membri dell’Unione Europea, chiedono una moratoria fino a quando non saranno disponibili studi completi sull’impatto sugli ecosistemi marini. Nonostante questo, la pressione geopolitica aumenta: Cina, Giappone, India e Russia, contrari alla moratoria, potrebbero ora accelerare per legalizzare l’estrazione.
Anche gli stati insulari del Pacifico, come le Isole Cook, si muovono, stringendo accordi con la Cina per valorizzare i propri fondali marini. Una tendenza che preoccupa molti osservatori, evocando il rischio di una nuova stagione di sfruttamento coloniale delle risorse oceaniche.
L’apertura unilaterale degli Stati Uniti segna un punto di svolta: la corsa ai minerali degli abissi è ufficialmente cominciata e il prezzo da pagare non sarà solo geopolitico ma anche ecologico.