L’urbanistica non è mai neutrale, lo abbiamo sempre ripetuto. Il modo in cui le città vengono costruite e abitate influisce direttamente sulle relazioni tra le persone. Quartieri separati rafforzano le divisioni, quartieri misti possono invece creare legami e ridurre i conflitti. Nel libro dei premi Nobel “Una buona economia per tempi difficili”, (una Bibbia che dovete assolutamente leggere!) Abhijit Banerjee ed Esther Duflo spiegano come l’organizzazione degli spazi urbani e il sistema scolastico possano diventare strumenti di pace ed inclusione.
Il punto di partenza è la fragilità dei quartieri misti. Thomas Schelling, premio Nobel per l’economia, mostrò già negli anni ’70 che la mescolanza tra gruppi diversi è instabile; se gli abitanti sono disposti a vivere in quartieri misti ma non ad accettare di trovarsi in netta minoranza, basta un piccolo cambiamento per far saltare l’equilibrio. Alcune famiglie se ne vanno, quelle rimaste cominciano a temere di restare isolate, la tensione cresce e chi può si trasferisce. È quello che Schelling definì “tipping point”, il punto di rottura (o svolta), una soglia oltre la quale le scelte individuali cambiano bruscamente perché influenzate dal comportamento collettivo, fino a rompere l’equilibrio del quartiere.
David Card ha studiato questo meccanismo osservando l’aumento della segregazione negli Stati Uniti tra anni Settanta e Novanta. Se la percentuale di afroamericani restava sotto una certa soglia, il quartiere rimaneva stabile, oltre quella soglia, la popolazione bianca diminuiva rapidamente. A Chicago la soglia era particolarmente bassa, intorno al 5%. In media, nelle città statunitensi, i tipping point si collocavano tra il 12 e il 15%.
Per contrastare questa deriva, Banerjee e Duflo propongono di distribuire l’edilizia popolare in tutta la città. A Parigi, raccontano, in un quartiere elegante accanto al loro si trovava un complesso di case popolari, i bambini frequentavano la stessa scuola e giocavano nello stesso parco. Singapore ha fatto un passo ulteriore, imponendo per legge quote etniche in ogni isolato. Un modello meno rigido ma simile potrebbe prevedere una quota di alloggi popolari riservati in ogni quartiere.
Il problema è politico non tecnico, sarebbe facile immaginare un’assegnazione trasparente con sorteggi pubblici ma la tentazione di usare le case popolari nei quartieri benestanti come strumento di clientelismo è forte.
In attesa di trasformazioni urbanistiche di lungo periodo, la leva più immediata resta quindi la scuola. Negli Stati Uniti si tentò con il trasporto forzato in autobus, come a Boston ma la misura fu impopolare. Più efficace si è rivelato il programma METCO, che consentiva ai bambini delle minoranze residenti in quartieri poveri di frequentare scuole a maggioranza bianca. I risultati furono positivi per i ragazzi svantaggiati senza effetti negativi per gli altri. Anzi, i figli delle famiglie bianche, che altrimenti sarebbero cresciuti in contesti esclusivamente bianchi, hanno avuto la possibilità di vivere la diversità e di cambiare in profondità la loro visione del mondo.
Solo così la scuola adempie al suo ruolo primario, quello di piantare i semi per una società più inclusiva e pacifica.





