Negli ultimi decenni, i mari di tutto il mondo sono stati letteralmente saccheggiati. La pesca intensiva, il mancato rispetto delle normative e gli interessi economici che prevalgono su quelli sociali hanno portato gli stock ittici a un declino drastico e, in alcuni casi, irreversibile. In diverse aree del pianeta, spesso caratterizzate da elevati livelli di povertà e malnutrizione, gli oceani potrebbero ancora fornire una buona quantità di pesci pelagici. Questi pesci, di dimensioni più piccole e meno pregiati rispetto alle specie “da ristorante”, sarebbero sufficienti a nutrire la popolazione locale. Tuttavia, vengono invece pescati e destinati all’industria dei mangimi e delle farine, utilizzati per alimentare altri pesci, quelli d’allevamento.
Potrebbe sembrare un paradosso pescare pesci per nutrire altri pesci, ma è esattamente ciò che accade quotidianamente. Francesco De Augustinis, giornalista e documentarista, ha cercato di raccontare questa realtà nel suo ultimo film, “Until the End of the World”. Il titolo, condiviso con il celebre film fanta-apocalittico di Wim Wenders, è stato premiato con l’Environment Award al 21° Ocean Film Festival di San Francisco ed è ora proiettato nei cinema italiani.
Il documentario racconta una triste realtà che De Augustinis ha esplorato attraverso un viaggio che parte dall’Italia e attraversa varie nazioni e continenti, dall’Europa all’Africa, fino ad arrivare all’estremo sud del Cile. È da qui che partono le grandi navi che saccheggiano il krill nell’Oceano Meridionale, l’ultima frontiera del saccheggio dei mari.
Il saccheggio dei mari è un fenomeno diffuso in molte parti del mondo, come al largo delle coste del Senegal, dove il giornalista Francesco De Augustinis ha incontrato le popolazioni che vivono di pesca. In questi luoghi, i pescatori locali non vendono più il loro pescato ai mercati locali né riforniscono le piccole attività di trasformazione, privando così la propria comunità. Invece, vendono il pescato alle aziende mangimistiche, principalmente europee, per guadagnare qualcosa in più. Questo guadagno, sebbene possa sembrare modesto agli occhi occidentali, fa una grande differenza per le famiglie abituate a vivere con poco. In questo modo, alcuni poveri riescono a diventare un po’ meno poveri, ma a scapito di altri che diventano ancora più poveri.
Nel frattempo, il pesce viene caricato su grandi navi container e trasportato verso aziende di trasformazione nei Paesi industrializzati, dove viene trasformato in farine e oli destinati all’alimentazione di pesci d’allevamento molto richiesti nel mercato occidentale, come salmone, orate e branzini.
Qui è necessario aprire una parentesi per spiegare che l’acquacoltura consiste nell’allevare migliaia di pesci in grandi gabbie galleggianti in mare. Questi pesci vivono tutta la loro esistenza in spazi ristretti, senza mai vedere più di pochi metri quadrati di oceano, in condizioni paragonabili agli allevamenti intensivi di polli. Questo sistema non solo causa sofferenza agli animali, il cui benessere non è considerato, ma distrugge anche gli habitat marini. Le aree intorno agli impianti di acquacoltura, spesso situate in golfi e insenature con acque calme, diventano cloache a causa dell’accumulo di rifiuti, trasformando potenziali paradisi turistici in luoghi da evitare.
De Augustinis nel suo film sottolinea che le istituzioni e le agenzie internazionali come la FAO promuovono l’acquacoltura come soluzione per produrre proteine animali per una popolazione globale in crescita. Tuttavia, esplorando da vicino il funzionamento della filiera dell’acquacoltura, emerge una realtà diversa: il consumo di risorse, l’inquinamento e la sottrazione di potenziale cibo a popolazioni locali sono i costi nascosti di questo processo.
Il punto fondamentale è che se un prodotto viene venduto a un prezzo troppo basso, qualcun altro sta pagando il vero costo. Nel 2024, è difficile ignorare questa realtà. Come accettare il sushi all you can eat a 10 euro sapendo quanto costi il pesce in pescheria. Il film di De Augustinis serve proprio a questo: impedire che si possa continuare a dire “non lo sapevo”.