di Marco Improta – Il Governo propone ricette sbagliate per affrontare il problema dell’instabilità dei governi italiani. Ci troviamo ancora in una fase embrionale ed interlocutoria, ma le ipotesi che sono state avanzate finora dalla Ministra per le riforme Casellati non solo rischiano di non risolvere il problema dell’instabilità, ma anche di creare nuove criticità per il sistema politico italiano. Nello specifico, le ipotesi sono principalmente due: riforma presidenziale e “premierato”.
In questo articolo proverò brevemente a spiegare perché trattasi di due proposte inefficaci e con conseguenze deleterie per la qualità della democrazia.
In primo luogo occorre fare chiarezza, soprattutto alla luce del caos concettuale che sta caratterizzando l’azione riformatrice del governo, sui criteri principali definitori dei sistemi presidenziali. Il primo criterio è l’elezione popolare diretta del capo dello stato per una durata prestabilita di tempo. Come ricorda Giovanni Sartori, questa caratteristica, da sola, non è sufficiente a qualificare un sistema politico come presidenziale. L’Austria, ad esempio, prevede l’elezione diretta del capo di stato, ma quest’ultimo rimane una figura cerimoniale e il sistema continua ad operare come un parlamentarismo di fatto. Il secondo criterio riguarda l’assenza di sfiducia parlamentare nei confronti di chi detiene il potere esecutivo. In altre parole, il parlamento non può portare un governo alla caduta. In questo modo, il rapporto di fiducia esecutivo-legislativo svanisce e l’introduzione di strumenti davvero utili per la stabilità (come la sfiducia costruttiva, ne parleremo più avanti) diventa incompatibile.
L’utilità di adottare una forma di governo presidenziale è stata messa in discussione da molti studiosi. Juan Linz, in particolare, ha evidenziato la disfunzionalità di tale sistema, specialmente in contesti caratterizzati da intense fratture sociali e alta frammentazione partitica. Non è un caso che in Europa ci sia solo un esempio di presidenzialismo: Cipro.
Il presidenzialismo è invece molto più diffuso in America Latina, ma il caso esemplare è naturalmente quello statunitense. Guardando a questi sistemi, possiamo sostenere che vi sia una stabilità sistemica da invidiare?
Una riforma presidenzialista, in paesi come l’Italia, è rischiosa per molteplici motivi. Qui mi limito a citare il più grave: le crisi di governo tipiche dei sistemi parlamentari (che l’Italia conosce bene) si trasformerebbero in crisi di regime. Dunque, i conflitti riguarderebbero le colonne portanti dello stato, con conseguenze potenzialmente drammatiche per la stabilità del paese, non solo del governo. Le crisi di governo parlamentari, seppur producendo insoddisfazione tra i cittadini per le situazioni di stallo che si instaurano, prevedono soluzioni istituzionali chiare e prevedibili. I disordini di Capitol Hill e il recente assalto al parlamento brasiliano sono eventi emblematici che mostrano invece come sistemi presidenziali favoriscano lo scoppio di conflitti che minacciano la stabilità generale, non solo istituzionale.
Un’ulteriore proposta di riforma in discussione riguarda l’elezione diretta del primo ministro, conosciuta anche come “premierato”. Questo sistema non è assimilabile né al presidenzialismo né al semipresidenzialismo; prevede infatti il verificarsi di un solo criterio definitorio dei sistemi presidenziali (l’elezione diretta, per l’appunto). Rimane il rapporto di fiducia esecutivo-legislativo e rimane la figura del capo di stato, con poteri limitati. Il funzionamento del premierato lo si può apprezzare solamente guardando all’unico caso di sua applicazione reale: Israele, dove questo sistema è stato introdotto nel 1992, applicato dal 1996 al 2001, e poi abrogato. Il fallimento dell’esperimento del premierato in Israele non è dovuto solo a circostanze e caratteristiche particolari di questo paese. È anche nella ratio teorica di questo sistema che risiedono alcuni problemi. In primo luogo, il primo ministro eletto direttamente dal popolo vede comunque (parte) del suo destino nelle mani del parlamento, che può sfiduciarlo tramite mozione. Per difendersi dalla sfiducia, il primo ministro possiede l’arma della dissoluzione anticipata del parlamento. Tutto ciò provoca una instabilità difficilmente gestibile perché il primo ministro fonda la sua azione di governo su una costante minaccia di dissoluzione. Non solo: la facoltà del primo ministro di sciogliere anticipatamente il parlamento si presta facilmente a considerazioni utilitaristiche, ovvero approfittare di momenti di popolarità al fine di aumentare il bacino di voti per le nuove elezioni. Il premierato, dunque, introduce potenziali elementi di instabilità di cui è bene tenere conto e l’esperienza di paesi che l’hanno introdotto è fallimentare.
Il rischio di fare riforme sbagliate non deve essere motivo per non fare riforme. L’instabilità dei governi italiani è un problema serio che deve essere senz’altro affrontato, e possibilmente risolto. Sia il presidenzialismo che il premierato in questo momento rischiano di essere un “passo più lungo della gamba”: per dare stabilità ai governi si mette a repentaglio la stabilità del paese. Occorre, quindi, pensare ad uno percorso più graduale, che non abbandoni l’assetto parlamentare ma che lo corregga e lo razionalizzi. Lo strumento più adatto, seguendo questo approccio, è la sfiducia costruttiva. È bene ricordare ancora una volta che la sfiducia costruttiva non è pensata per agire in un sistema presidenziale. Le due opzioni quindi si escludono.
In Europa i casi più utili a cui guardare sono quelli di Germania e Spagna. La funzione di stabilizzazione di questo istituto risiede nell’impossibilità di sfiduciare un governo, e quindi portarlo alla caduta, senza accordare la fiducia ad un nuovo esecutivo pronto a subentrargli. Il parlamento si assume dunque la responsabilità di individuare una soluzione alla possibile crisi di governo già in fase di sfiducia del governo indesiderato. Gli studi politologici che hanno testato empiricamente la relazione tra sfiducia costruttiva e stabilità sono ormai diffusi e mostrano i benefici di questo strumento. Le crisi di governo diventerebbero limitate sia nel numero che nella durata. La politica – nella sua natura intrinseca di dialettica tra interessi contrapposti rappresentati dai partiti – riotterrebbe inoltre la sua centralità e, soprattutto, responsabilità.
Altri processi di razionalizzazione utili riguardano il superamento del bicameralismo paritario e l’attribuzione di maggiori poteri al presidente del consiglio (su tutti, quello di revocare i ministri).
Se stiamo cercando un rimedio per l’instabilità dei governi italiani, è proprio al parlamentarismo che bisogna guardare. Al governo, dunque, serve un necessario cambio di rotta.
L’AUTORE
Marco Improta è dottorando di ricerca in Politics presso il Dipartimento di Scienze Politiche della LUISS e membro del Centro Italiano Studi Elettorali. Si occupa in particolare di instabilità dei governi in Italia e nelle democrazie occidentali studiandone le cause, le conseguenze e le possibili soluzioni.