Fino a non molto tempo fa, si pensava che il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) fosse un problema che riguardava esclusivamente i bambini, in particolare quelli più vivaci e difficili da gestire in ambito scolastico. Oggi, però, si osserva un rapido aumento delle diagnosi di ADHD in tutte le fasce d’età, con un incremento particolarmente evidente tra le giovani donne e quelle di mezza età. Secondo il Nuffield Trust, un centro studi britannico circa il 4% della popolazione in Inghilterra – ovvero circa 2 milioni di persone – è affetto da ADHD, spesso in concomitanza con altri disturbi come l’autismo e la dislessia.
Attualmente, l’approccio all’ADHD è di tipo binario: si è considerati affetti o non affetti dal disturbo. Questo modello pone due grandi problemi. Da un lato, trattare tutte le persone con sintomi come malate sovraccarica il sistema sanitario, con tempi di attesa per una diagnosi che possono arrivare fino a dieci anni. Dall’altro, vedere l’ADHD come un difetto da correggere può portare a sprecare molto potenziale umano, costringendo chi ne soffre a convivere con ansia e depressione nel tentativo di adeguarsi a una presunta “normalità”.
La ricerca scientifica, tuttavia, ha dimostrato che questa prospettiva è superata. Non esiste un unico “cervello con ADHD”, poiché i tratti tipici della condizione – come difficoltà di attenzione, impulsività e problemi nell’organizzazione – si distribuiscono lungo un continuum che tocca tutti gli esseri umani. Nei casi più gravi, farmaci e terapie restano fondamentali, ma per la maggior parte delle persone con ADHD i sintomi sono lievi e possono essere affrontati adattando l’ambiente.
È più efficace e sostenibile, infatti, modificare i contesti scolastici e lavorativi per accogliere la neurodiversità, anziché cercare di far conformare le persone a standard rigidi. Esistono insegnanti che considerano la neurodiversità dei bambini senza ricorrere a diagnosi formali, ma li aiutano a sviluppare le loro capacità e a gestire le loro difficoltà. Un’alternanza di momenti di lavoro seduti, in piedi o in gruppo, così come orari più flessibili, può fare una differenza significativa.
Questi adattamenti dovrebbero diventare la norma nelle scuole e negli ambienti di lavoro, accompagnati da una maggiore consapevolezza della neurodiversità, in modo da ridurre il bullismo e migliorare la gestione del personale. Le persone neurodivergenti eccellono spesso in compiti specifici, come il multitasking o le attività che richiedono abilità visive, ma possono trovare difficoltà in contesti disordinati. Creare una cultura che valorizzi le differenze e adotti regole più flessibili non solo supporterebbe queste persone, ma porterebbe benefici a tutta la società.
In sintesi, invece di aumentare il numero di diagnosi formali, il modo più efficace per aiutare chi presenta tratti di ADHD è creare ambienti che ne esaltino i punti di forza e riducano gli ostacoli legati alla neurodiversità.