
Jonathan Haidt, psicologo sociale della New York University e autore del bestseller “La generazione ansiosa”, in una intervista al The Guardian ha lanciato un appello urgente: “Gli smartphone e i social media hanno innescato un’epidemia di fragilità mentale nei giovani dal 2010”.
Il suo lavoro, basato su ricerche epidemiologiche, delinea un quadro allarmante: aumento del 150% di depressione, picchi del 167% nei suicidi tra le adolescenti e incrementi record di autolesionismo, con dati concreti come il boom di ricoveri al pronto soccorso per lesioni autoinflitte. Haidt, docente alla New York University Stern School of Business con un passato nel campo della psicologia positiva (celebre il suo corso Flourishing che include esercizi come “catturare e analizzare 10 pensieri automatici”) definisce questa crisi “La Grande Riorganizzazione dell’Infanzia” .
La sua analisi affonda le radici nella psicologia morale, settore in cui è pioniero con studi su emozioni come l’“elevation” (quella spinta a comportamenti virtuosi scatenata dall’esposizione alla bellezza morale). Tuttavia, di fronte alla portata dell’emergenza, ha abbracciato un ruolo attivo: “Quando ho compreso che la coscienza umana sta cambiando su scala industriale, ho sviluppato uno zelo da attivista”. La posta in gioco è elevatissima, soprattutto con l’avvento dell’intelligenza artificiale che rischia di aggravare la dipendenza digitale. “Dobbiamo proteggere i bambini ora, nel 2025. Le prossime generazioni affronteranno sfide inimmaginabili, devono essere forti e capaci di gestire la propria attenzione” .
Le sue tesi, sostenute da meta-analisi come quella su 26 studi che evidenzia un +13% di rischio depressione per ogni ora sui social, hanno già influenzato politiche concrete. In Australia, il divieto dei social per gli under 16 (nato dopo che la moglie di un parlamentare, leggendo il libro, esortò il marito ad agire) è diventato legge. “Le aziende”, accusa Haidt, “hanno ammesso in report interni che i minori sono vulnerabili ai meccanismi di ricompensa sociale e incapaci di autoregolarsi”, come nel caso di TikTok .
Sul fronte personale, Haidt ha testato le sue teorie con i figli (15 e 18 anni). Pur avendo vietato i social alla figlia (“è l’unica al liceo senza Snapchat”), ammette errori: “Avrei dovuto bandire gli schermi dalle camere. I miei figli dipendono da dispositivi più del necessario”. Suggerisce ai genitori di sostituire gli smartphone con telefoni “a conchiglia, dategli un telefono fisso, un telefono senza fili (volete che i vostri figli possano comunicare con i loro amici, ma non volete affidarli ad aziende a scopo di lucro, il cui obiettivo è quello di agganciare vostro figlio) create zone senza schermi”, ma riconosce che per gli adolescenti già iperconnessi, un divieto radicale equivarrebbe a una “morte sociale”. La soluzione? “Aiutarli a riconquistare la loro attenzione con ampi spazi giornalieri offline”.
Non mancano le critiche, come quelle della psicologa Candice Odgers che in una recensione su Nature lo accusa di confondere correlazione e causalità. Haidt replica citando non solo dati temporali (il declino del benessere è iniziato nel 2010, prima di Covid e crisi climatica), ma anche il fatto che i preadolescenti, meno coinvolti in temi politici, siano i più colpiti, contraddicendo chi attribuisce il malessere all’ansia per il pianeta.
La sua visione rimane comunque legata alla psicologia positiva: “Sono ottimista. Faremo enormi progressi se agiamo insieme”. Le sue quattro norme, niente smartphone prima dei 14 anni, niente social media fino ai 16, scuole “phone-free” e più gioco libero, mirano a riequilibrare due errori opposti: “Abbiamo iperprotetto i bambini nel mondo reale e sotto-protetti online. Il gioco non supervisionato è cruciale per sviluppare competenze come la cooperazione e la gestione dei conflitti, e la sua scomparsa ha lasciato un vuoto pericoloso, proprio ciò che abbiamo smesso di fare”.
Mentre l’IA accelera la corsa verso un mondo iperconnesso, Haidt lancia il suo appello finale: “Ridiamo ai giovani il diritto alla noia, all’errore, agli sguardi incrociati senza filtri. La posta in gioco non è solo la salute mentale ma l’essenza stessa di ciò che ci rende umani”.