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Il lavoro che cambia: chi paga?

beppegrillo.it - Gennaio 28, 2019

di Valentina Petricciuolo – Lavoro! Lavoro! Lavoro! E’ questo che chiedono a gran voce le persone. Un lavoro che deve “essere dato”, che va elargito come se fosse qualcosa che si produce, si crea, si coltiva. Ma chi può “dare” questo lavoro? Eppoi, che tipo di lavoro?

Si parla tanto di quanto oggi il lavoro sia diventato causa di stress, di malattia e di depressione. Perfino di morte. Eppure, chi non ce l’ha, lo vuole. Non chiede un sussidio di disoccupazione o un reddito di base. No: vuole “il lavoro”.

Recentemente è stato pubblicato un libro di David Graeber, Bullshit Jobs, Le professioni senza senso che rendono ricco e infelice chi le svolge. Davvero illuminante perché toglie quel velo di ipocrisia che copre gli altisonanti proclami che mettono su un piedistallo il “lavoro”.

Eppure il grido di dolore non si placa. Tutti lo vogliono questo “lavoro”. E, soprattutto, qualcuno glielo deve dare. Ma, alla fine, chi deve “produrre” questo “lavoro”? Lo Stato e la pubblica amministrazione? Le aziende private?

Lo Stato, soprattutto in Italia, è quello che viene interpellato ripetutamente e con insistenza. Quasi fosse un prestigiatore, un mago che tira fuori dal cappello a cilindro i “posti di lavoro”.

Cosa può effettivamente fare lo Stato, uno Stato, per risolvere questo colossale problema?

Ne hanno parlato al World Economic Forum che si è appena concluso a Davos. E una cosa si è capita: nessun paese è davvero pronto a tale epocale transizione. Ciascuno sceglierà cosa fare per addolcire la pillola, per saltare il burrone e costruire un ponte verso l’altra sponda. E ce ne sarebbero di cose da fare: da una riforma del sistema scolastico e della formazione professionale, alla garanzia di una pensione o di un sussidio per i disoccupati o di un reddito di base universale.

E, sempre al WEF, è stato presentato uno studio interessante predisposto dal Boston Consulting Group nell’ambito del progetto Preparing for the Future of Work che quantifica il costo che sarebbe necessario sostenere negli Stati Uniti per riqualificare e assistere un milione e mezzo circa di persone “dismesse” dal mondo del lavoro. Secondo questa analisi – Towards a Reskilling Revolution – per riqualificarle o per dar loro un sussidio, ci vorrebbero ben 34 miliardi di dollari! E la maggior parte di questi – oltre l’80% – graverà giocoforza sulla spesa pubblica.

Le aziende private potrebbero coprire solo il 25% di questi costi. E arrivare fino al 45% se le imprese collaborassero tra loro.

Il rapporto rileva inoltre che lo stato potrebbe accollarsi la spesa di riqualificazione del 77% di tutti i lavoratori a rischio, con un ritorno sull’investimento derivante dall’aumento delle tasse e dai minori costi sociali. Per il restante 18%, i costi supererebbero i ritorni economici, mentre per il 5% non sarebbe possibile un percorso di riqualificazione.

Con il 18% di tutti i lavoratori a rischio – 252.000 persone – impossibilitati a essere proficuamente impiegati dalle imprese o dal settore pubblico, i risultati del rapporto implicano che i governi devono prendere in considerazione l’espansione del welfare e del supporto sociale erogando sussidi e in collaborazione con il settore privato.

La questione di chi paga per la riqualificazione quando centinaia di migliaia di posti di lavoro diventeranno inutili nel prossimo decennio come risultato della Quarta Rivoluzione Industriale e di altri fattori strutturali, è sempre più importante.

Perciò è vitale innanzitutto monitorare, quantificare e analizzare il fenomeno anche in Italia. Capire esattamente quanto sarà necessario investire, nel breve e nel lungo termine, anche nel nostro paese per riqualificare e formare adeguatamente chi può essere riqualificato e formato. Con strategie concrete da mettere in atto nei prossimi anni, un percorso a tappe che coinvolgerà la società nel suo complesso.

E con la consapevolezza che sarà lo Stato a doversi accollare gran parte dei costi.

E un costo che non può essere ignorato è quello del reddito di cittadinanza – o, meglio, di un reddito di base universale.

Perché ci vorrà del tempo per permettere di attivare un sistema di riqualificazione e di cambio di rotta del sistema educativo in Italia. E ci vorrà un cambio di cultura. Non basteranno una legge o un decreto ma ci vorrà la collaborazione di tutti. Un cambio di mentalità, una consapevolezza collettiva della necessità di affrontare le dinamiche di una rivoluzione – la già citata Quarta Rivoluzione Industriale – che è già tra noi e sta coinvolgendo milioni di individui.

E bisognerà accettare una volta per tutte l’idea che la ricchezza prodotta dalla automazione e dall’innovazione tecnologica dovrà essere ripartita più equamente attraverso un reddito di base. Reddito indispensabile, vitale, per chi non potrà in alcun modo trovare un “lavoro”.

Reddito che non è una forma assistenziale per i nullafacenti. Basti pensare a tutti quei “lavori” così utili ma che non emergono in alcun bilancio ufficiale: la cura dei figli, le donne che stanno in casa e non sono retribuite né riconosciute, l’assistenza agli anziani di chi non può permettersi badanti e case di cura, il volontariato…e così via. Lavori che non sono “posti di lavoro” ma che contribuiscono enormemente allo sviluppo e al benessere della comunità e perciò sono altrettanto se non più importanti di quelli “ufficiali”.

Bisogna accettare l’idea che lo Stato dovrà tenere conto di questi costi e le polemiche sul reddito di cittadinanza sono sinceramente assurde. Ma questi costi che lo Stato dovrà sostenere verranno ripagati grazie ai benefici che deriveranno da una società più sana, da persone più serene e meno afflitte da problemi di sopravvivenza quotidiana.

Ma anche i meno poveri, coloro che oggi un lavoro ce l’hanno – ma, come dice Graeber è un “bullshit job” – potranno rifiutarsi di sottomettersi al ricatto perché avranno una rete di protezione che gli permetterà di dire NO!.

L’AUTORE

Valentina Petricciuolo – Laurea in Economia, specializzazione in commercio internazionale e promozione delle imprese italiane all’estero. Responsabile dello sviluppo e supporto delle aziende australiane in Italia presso il Consolato Generale di Milano. Trade Relations Officer per UK Trade and Investment presso l’Ambasciata Britannica a Roma. Crowdfunder e micro Business Angel attiva sulle piattaforme europee e statunitensi. Attualmente funzionario dell’Istituto per il Commercio Estero (Agenzia ICE) di Roma e responsabile, dal 2005 al 2010, del Desk Attrazione Investimenti esteri della sede di New York. Master in trasferimento tecnologico e open innovation del Politecnico di Milano (2014) e membro dal 2014 al 2017 del panel europeo dei valutatori di progetti Proof of Concept per la valorizzazione della ricerca scientifica dello European Research Council. Autrice del blog La Curiosità è la Bussola su innovazione, imprenditorialità, valorizzazione della ricerca scientifica, crowdfunding, nuove dinamiche del lavoro, reddito di base universale, crescita personale e libertà finanziaria, blockchain e criptovalute. http://valentinapetricciuolo.it

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