
Avete mai pensato a che fine fa quella bottiglietta di plastica monouso che, da cittadino attento, avete appena buttato nel contenitore della raccolta differenziata? La maggior parte delle persone immagina che venga riciclata davvero, magari in un impianto poco distante. La realtà, però, è molto meno lineare: quella bottiglia potrebbe intraprendere un viaggio lungo migliaia di chilometri, fino a un altro continente. E là, se le va bene, verrà lavata, asciugata, separata dagli altri materiali, trasformata in granuli e poi riutilizzata per produrre qualcosa di più fragile, tipo un imballaggio. In quel caso, possiamo quasi parlare di successo. Perché, se invece finisce tra i rifiuti, è molto più probabile che venga bruciata come carburante sporco per alimentare la produzione di cemento o addirittura di tofu. Oppure potrebbe accumularsi in qualche angolo dell’Asia o dell’Africa, deturpando il paesaggio, ostruendo i corsi d’acqua, finendo in mare, inghiottita dai pesci, e da lì – attraverso il commercio globale del pesce – tornare nelle nostre cucine. E nei nostri corpi. Sì, è una forma di riciclo. Ma non quella che immaginiamo.
Questa storia non è un segreto, eppure resta ai margini del dibattito pubblico. Alexander Clapp, giornalista investigativo con collaborazioni importanti ha deciso di raccontarla da dentro. Il suo libro “Waste Wars”, (solo in inglese) è il risultato di un’indagine sul campo: Clapp ha seguito i rifiuti nel loro tragitto globale, visitando luoghi estremi e spesso inquietanti. Dall’Indonesia, dove interi villaggi sono sommersi da plastica occidentale, alla Turchia, dove i cantieri navali smantellano enormi scafi tossici con strumenti rudimentali, fino a una baraccopoli in Ghana dove i migranti recuperano metalli preziosi da dispositivi elettronici scartati.
Nel suo Waste Wars, Clapp riporta anche vicende dimenticate, ma emblematiche. Come quella del Mare di Khian, una nave salpata nel 1986 con un carico di ceneri tossiche provenienti dagli inceneritori di Filadelfia. Rifiutata da ogni porto per 27 mesi, ha vagato per gli oceani finché, un giorno, la stiva è risultata misteriosamente vuota. Solo anni dopo il capitano ammise di aver gettato tutto in mare, nell’Atlantico e nell’Oceano Indiano.
Il libro non è solo una cronaca. È anche un’analisi della globalizzazione dei rifiuti, una delle facce più scomode del nostro sistema economico. Quando i Paesi occidentali hanno cominciato a introdurre norme ambientali più rigide, lo smaltimento dei loro rifiuti è stato “esternalizzato” verso le economie più povere. Anche l’Europa, che si presenta come campione di sostenibilità, non è immune: nel 2021 ha prodotto 16 milioni di tonnellate di rifiuti plastici, e meno della metà è stata riciclata entro i propri confini.
Certo, alcune esportazioni hanno avuto un impatto positivo. Computer usati sono arrivati in Ghana per offrire accesso alla rete. La Cina ha importato plastica per ricavarne materia prima. La Turchia ha costruito strade e grattacieli con rottami metallici. Persino l’acciaio delle Torri Gemelle è stato riutilizzato in India, dove oggi regge scuole e showroom. Ma troppe spedizioni si sono rivelate inganni: balle di carta “riciclabile” piene di plastica sporca, lotti contenenti pannolini usati mescolati alla plastica da riuso, inviate nei sobborghi di Pechino.
Nel 1992, la Convenzione di Basilea ha provato a regolamentare i rifiuti pericolosi, ma ha lasciato molte scappatoie. E mentre i paesi poveri alzano nuove barriere, la spazzatura cerca nuovi approdi. La Cina, che nel 2017 era la principale importatrice di plastica destinata al riciclo, ha imposto un blocco. Il Sud-est asiatico ha fatto lo stesso, seguendo l’esempio con leggi più restrittive, dalla Thailandia all’Indonesia. Se questi divieti verranno rispettati, sarà solo questione di tempo prima che i rifiuti trovino nuove rotte. La Malesia, per esempio, è già diventata un hub importante.
Cosa si può fare? Clapp, pur avendo descritto nei dettagli la complessità del problema, resta cauto sulle soluzioni. Propone di attribuire alle aziende occidentali una responsabilità economica per i rifiuti che generano, denunciando le falle della cooperazione internazionale e gli eccessi della sovrapproduzione.
Ma anche questa proposta presenta limiti. Regole più dure in Occidente potrebbero semplicemente incentivare il trasferimento dei problemi verso i Paesi più vulnerabili. E mentre il panorama geopolitico cambia, immaginare un’azione concertata appare sempre più difficile. Con gli Stati Uniti che si ritirano dagli accordi sul clima e ridimensionano le agenzie ambientali, è poco realistico pensare che possano guidare una riforma globale. Inoltre, Clapp sorvola sul ruolo attivo della Cina come produttore di massa: presentarla solo come vittima è fuorviante.
In certi passaggi, la sua voce sembra sfiorare un invito alla decrescita. Il messaggio che lancia agli americani – consumate meno – può avere un senso. Ma è difficile rivolgere lo stesso invito a milioni di persone in Asia che stanno uscendo dalla povertà e scoprono per la prima volta i beni di consumo. L’Occidente ha passato secoli a dire all’Oriente cosa fosse giusto fare. Anche oggi, dire “non fate come noi” rischia di suonare paternalista. Per quanto sincere siano le intenzioni.