di Beppe Grillo – I paradisi fiscali, e con loro l’opacità finanziaria, sono una delle principali cause delle crescenti ineguaglianze economiche nel mondo, e costituiscono una seria minaccia per le nostre società democratiche, poiché le nostre democrazie si fondano sul fatto che tutti devono pagare le tasse. Se ciò non avviene ovvero se alcuni degli uomini più ricchi e alcune delle più grandi società del pianeta si servono dei paradisi offshore (Svizzera, Malta, Lussemburgo, Irlanda, Londra etc…) e dell’elusione fiscale per evitare di pagare la quasi totalità delle imposte dovute, questo contratto sociale fondamentale è in pericolo.
Circa l’8% dei patrimoni finanziari mondiali è detenuto nei paradisi fiscali, e nei paesi emergenti e in via di sviluppo la percentuale aumenta notevolmente (30% Africa, oltre il 50% in Medio Oriente).
Per porre fine a questo mondo sommerso servono sanzioni nette ed importanti.
Una possibile soluzione, e attuabile nell’immediato, è quella proposta dall’economista Gabriel Zucman. Nel suo libro “La ricchezza nascosta delle nazioni”, analizzando la Svizzera (detentrice nel 2009 di 2100 miliardi di patrimoni esteri) l’autore prospetta una coalizione tra i tre principali paesi vicini (Germania, Francia e Italia) per imporre al paese elvetico dazi commerciali pari al 30%.
Vediamo la proposta di seguito nel dettaglio:
[…] Le esportazioni dei principali centri offshore si concentrano generalmente su un numero di partner limitato. Basta quindi che una manciata di Paesi si unisca perché i territori non cooperativi subiscano perdite elevate senza osare lanciare rappresaglie. Le coalizioni ottimali sono quindi piccole e per questo facili da formare. Prendiamo il caso della Svizzera – ma l’esempio potrebbe applicarsi a Dubai, Macau o qualsiasi altro Paese tentato di fare nel XXI secolo quello che la Svizzera ha fatto per la prima volta nel XX, cioè aiutare i frodatori a sottrarsi alle leggi dei loro Paesi d’origine. La Germania, la Francia e l’Italia rappresentano circa il 35% delle esportazioni Svizzere, ma per loro la Svizzera è un cliente piuttosto piccolo (rappresenta meno del 5% delle loro esportazioni): una guerra economica si concluderebbe di certo con la sconfitta di Berna. Sarebbe quindi una coalizione contro cui la Svizzera non avrebbe interesse a combattere. Che dazi doganali dovrebbero essere imposti? Per definizione, l’unico dazio giustificabile dal punto di vista dell’Omc è quello che consente il recupero dei costi del segreto bancario. Seguendo questa logica, e stando ai miei calcoli, la Germania, la Francia e l’Italia hanno il diritto di imporre dazi del 30% alle merci che importano dalla Svizzera. Questi tre Paesi possiedono in totale circa 500 miliardi di euro nelle banche svizzere, di cui grosso modo l’80% è ancora nascosto. Ciò rappresenta una perdita di gettito fiscale di circa 15 miliardi di euro (imposta sul reddito, di successione e, nel caso della Francia, patrimoniale). 15 miliardi di euro è la somma che potrebbero recuperare con un dazio del 30% sulle merci provenienti dalla Svizzera.
A proposito di queste cifre, sono necessarie due osservazioni. Primo, la perdita di gettito fiscale dovuta al segreto finanziario è stimata al minimo, perché non include il costo degli scudi fiscali che gli Stati hanno dovuto approvare per paura che i loro contribuenti nascondessero i propri soldi in Svizzera. Si tratta tuttavia di costi notevoli, soprattutto in Italia, il Paese che più di tutti ha ridotto le imposte sul capitale finanziario. Qui i dividendi sono oggi tassati solo al 20% (molto meno che il reddito da lavoro), le successioni sono quasi del tutto esenti e la convinzione che sia impossibile tassare il patrimonio finanziario è così radicata che solo le proprietà immobiliari sono state colpite dall’ultimo aumento delle tasse – una politica che è valsa a Mario Monti la sconfitta alle elezioni del 2013. I calcoli delle perdite più prudenti, però, hanno il vantaggio di non poter essere contestati davanti all’Omc. La seconda osservazione riguarda i dazi doganali ottimali. Il loro calcolo comporta un margine di errore, perché la reazione degli esportatori e degli importatori è imprevedibile e dipende da molti fattori. Uno scenario probabile potrebbe però essere questo: se venisse applicato un dazio, i clienti francesi cesserebbero di acquistare prodotti svizzeri, a meno che i relativi prezzi tasse incluse – determinati su scala globale – rimanessero invariati.
I produttori svizzeri dovrebbero pertanto vendere meno e ridurre i loro prezzi tasse escluse: invece di esportare, come fanno oggi, merci per un valore di 60 miliardi di euro alla Francia, alla Germania e all’Italia – soprattutto prodotti chimici, macchinari e orologi – venderebbero merci solo per 45 miliardi di euro che, dopo un dazio del 30%, produrrebbero una fattura invariata di circa 60 miliardi di euro per gli importatori. Si verificherebbe quindi un calo di 15 miliardi di euro nel reddito nazionale della Svizzera e un corrispondente aumento per i tre Paesi confinanti. Con ogni probabilità, una perdita di 15 miliardi di euro sarebbe sufficiente per convincere la Svizzera a una cooperazione reale, perché la somma è paragonabile a quello che il Paese guadagna in totale gestendo i patrimoni degli evasori fiscali. Secondo le statistiche ufficiali, l’industria finanziaria costituisce circa l’11% del Pil elvetico. Ma le attività di gestione patrimoniale privata in senso stretto rappresentano solo il 4%. Il resto corrisponde ai mestieri assicurativi e alle altre attività bancarie, come crediti, speculazioni in proprio e così via. Inoltre non tutti i patrimoni gestiti dalle banche svizzere sono nascosti – quelli dei residenti svizzeri sono per lo più dichiarati – ed è quindi improbabile che l’evasione fiscale frutti una cifra superiore al 3% del Pil (l’1% circa dell’ammontare degli attivi non dichiarati gestiti dalle banche), ovvero 15 miliardi di euro all’anno. Si tratta di un contributo consistente, ma non essenziale: contrariamente all’opinione comune, la Svizzera, a differenza di altri micro-stati, non dipende dell’opacità finanziaria e non avrebbe problemi a sopravvivere alla sua scomparsa. Non è possibile sapere con esattezza quanto guadagni la Svizzera, e il 3% del Pil è una stima prudente, soprattutto perché i patrimoni dei frodatori non creano attività solo negli uffici di gestione patrimoniale delle banche. Ma ciò che conta è che l’evasione fiscale frutta alla Confederazione molto meno di quanto costi ai Paesi che ne sono vittime.
Se le banche svizzere fossero le uniche al mondo a fornire servizi di evasione fiscale, potrebbero in teoria aumentare le commissioni e guadagnare l’equivalente di tutte, o quasi tutte, le tasse evase dai loro clienti. Ma il loro monopolio è finito e non possono più imporre le commissioni esorbitanti che applicavano negli anni Sessanta. Se i dazi doganali del 30% si dimostrassero inefficaci (ad esempio a causa dell’influenza politica dei banchieri svizzeri), basterebbe ampliare la coalizione: includendo il Regno Unito, la Spagna e il Belgio, le perdite per la Svizzera raggiungerebbero il 4% del Pil; con tutta l’Unione europea, il 5%. Più Stati aderiscono alla coalizione, maggiori sono le possibilità di successo. Ma la buona notizia è che basterebbe un piccolo gruppo (la Francia, la Germania e l’Italia o il Regno Unito) per obbligare le banche e le autorità svizzere a una completa cooperazione. Sia chiaro: l’obiettivo delle sanzioni commerciali è quello di costringere i paradisi fiscali a collaborare, non di ristabilire il protezionismo. Stiamo parlando di minacce da brandire, che auspicabilmente non dovranno essere messe in pratica. I dazi doganali del 30% non hanno mai giovato a nessuno. Nel lungo periodo, il libero scambio è vantaggioso per tutti e il protezionismo deve essere evitato, ma, molto semplicemente, non possiamo continuare a liberalizzare i mercati ignorando il problema della dissimulazione fiscale.
La questione deve essere posta al centro del dibattito sul commercio. Poiché i dazi-sanzioni sono realistici e proporzionati, e pertanto credibili, in teoria non dovranno essere applicati. Ma se le minacce non dovessero risultare sufficienti, dovranno trasformarsi in realtà. In ogni caso, senza minacce specifiche non si faranno progressi. La maggior parte dei cittadini e delle società svizzere non ha niente da perdere dalla totale trasparenza finanziaria e di certo preferirebbe la fine dell’evasione fiscale offshore alle costanti critiche al proprio Paese. I banchieri hanno però un’influenza politica che supera di gran lunga il loro reale peso economico e quindi, senza minacce di rappresaglie, c’è da temere che riusciranno a mantenere una forma di status quo – a costo di abbandonare una parte della loro clientela, cioè quella che non ha i mezzi per nascondere i propri attivi nei trust, concentrandosi invece sulle fortune più ingenti. Lo stesso approccio permetterebbe di ottenere la collaborazione di altri centri importanti. In ogni caso, i grandi Paesi possono far cedere legalmente i giganti del sistema bancario offshore anche con coalizioni piccole.