L’attuazione di un Reddito Universale è sempre oggetto di intenso dibattito. Molti mostrano scetticismo, ma le riserve sul reddito di base spesso si riducono a concezioni su chi meriti davvero assistenza, come se la povertà fosse una questione di carattere o merito.
Secondo l’analisi pubblicata su The Conversation dalla Professoressa Tracy Smith-Carrier della Royal Roads University del Canada, esistono principalmente tre spiegazioni per la povertà.
In primo luogo, l’approccio individuale attribuisce i fallimenti o le inadeguatezze personali (come pigrizia o mancanza di disciplina) come fattori chiave. In secondo luogo, l’approccio strutturale o sistemico considera le barriere sociali, come la mancanza di lavori di qualità, disuguaglianze, problemi climatici ed economici, tra le principali cause di povertà. In terzo luogo, l’approccio fatalista suggerisce che il comportamento delle persone dipende dal destino, portando all’etichetta di “meno fortunato” a causa di eventi avversi come malattie o perdite, che innescano la povertà.
Tra questi, il secondo approccio ha maggiore rilevanza: le cause della povertà sono sistemiche. L’architettura del welfare sociale si basa sulla tradizione britannica, costruita sulle idee della legge sui poveri del XVI secolo. Questa eredità ha radicato l’idea che la povertà sia una responsabilità individuale, con l’assistenza pubblica concepita per essere punitiva e stigmatizzante.
La ricerca della Professoressa Smith-Carrier si concentra sulla comprensione delle cause della povertà e sullo sfatamento dei miti sul motivo per cui le persone diventano e rimangono “povere”.
Mito 1: La povertà deriva da problemi individuali.
Realtà: le barriere sistemiche hanno un peso maggiore nel generare povertà rispetto ai fattori individuali. La crisi del costo della vita è causata da programmi di sostegno al reddito inadeguati, alloggi inaccessibili e dalla mancanza di occupazione di qualità.
Mito 2: le persone povere sono pigre, demotivate e hanno bisogno di incentivi per lavorare.
Realtà: le persone in povertà lavorano duro (spesso svolgendo più lavori) ma non riescono a sbarcare il lunario. Non è una questione di motivazione inadeguata, ma di una fondamentale mancanza di opportunità di lavoro remunerative – lavori che paghino salari con cui le persone possano vivere e possibilmente mettere su famiglia.
Mito 3: i poveri sono tutti malati di mente e tossicodipendenti.
Realtà: le dipendenze non sono “esclusiva proprietà dei poveri”, ma toccano tutti i livelli socioeconomici. La povertà crea immense preoccupazioni per coloro che la subiscono, ma la ricerca mostra che i problemi di salute mentale e di uso di sostanze diminuiscono con programmi che implementano un reddito universale. Gli ambienti poveri (spesso caratterizzati da traumi e avversità infantili) generano malattie mentali e dipendenze ; gli ambienti benestanti le riducono.
Mito 4: I poveri sono criminali e inclini alla violenza.
Realtà: il comportamento criminale e la violenza non sono limitati a persone appartenenti a una categoria o classe specifica, sebbene le conseguenze del comportamento criminale possano spesso differire. Le persone ricche possono permettersi avvocati migliori che le aiutano a evitare procedimenti giudiziari e punizioni. Nel frattempo, i quartieri a basso reddito sono regolarmente sottoposti a sorveglianza e ad una maggiore presenza della polizia. E il razzismo (sia sistemico che palese) ha portato a una sovrarappresentazione delle persone emarginate nel sistema di giustizia penale.
Mito 5: le persone povere hanno morali e valori diversi; sono diversi da me.
Realtà: presupposti di dubbia moralità giocano ancora una volta nelle narrazioni della povertà che riguardano problemi individuali e scagionano le strutture economiche e politiche che riproducono la povertà. Quasi tutti (anche i più ricchi tra noi) sono affiliati alla “classe media” e ai suoi ideali. Le differenze tra le persone hanno molto più a che fare con l’accesso al potere e alle risorse, che con la morale e i valori.
Mito 6: I poveri hanno solo bisogno di essere più resilienti.
Realtà: concentrarsi sulla resilienza individuale suggerisce che sono le persone a dover adattarsi e cambiare, non le condizioni cui sono esposti. Caratteristiche individuali come l’intelligenza emotiva spiegano una misura di resilienza, ma i ricercatori stanno ora abbracciando una comprensione contestuale della resilienza che riconosce come le strutture sociali spesso determinano quanto possiamo essere resilienti. Gli ambienti favorevoli che forniscono accesso a risorse e opportunità hanno maggiori probabilità di produrre popolazioni resilienti.
Mito 7: Porre fine alla povertà non è una soluzione sostenibile e le persone possono fare affidamento sulla beneficenza.
Realtà: il sistema che abbiamo adottato adesso è estremamente costoso. Paghiamo caro per affrontare i sintomi della povertà, non le sue cause, e lo facciamo in modo inefficace. La ricerca ormai da anni ci suggerisce che un reddito universale porta grandi benefici sanitari e sociali che possono ridurre i costi esorbitanti della povertà, nonchè delle spese sanitarie. Inoltre, le persone non abbandonano improvvisamente la forza lavoro quando ricevono un reddito di base, né tali programmi sono troppo costosi da implementare. E la beneficenza non basta: le persone non escono mai dalla povertà utilizzando programmi di beneficenza e c’è una perdita di dignità per coloro che li utilizzano.
C’è bisogno di un reddito di base universale per aiutare le persone a far fronte alla crisi del costo della vita. Facciamolo tassando maggiormente le aziende e gli individui super ricchi per frenare la disuguaglianza dei redditi. A differenza dei falsi miti, l’angoscia della povertà è reale.
A questo link la ricerca completa di Tracy Smith-Carrier, in inglese