di Nicola Morra – Qualcuno di noi ricorda con piacere tutte/i le/gli insegnanti, le/i docenti, le professoresse ed i professori, le maestre ed i maestri con cui ha passato tanto del tempo della sua infanzia? La risposta la conosciamo in anticipo, ed è, purtroppo, negativa.
Lo Stato, o comunque la nostra famiglia in subordine, ci hanno costretto a passare tanto tempo con persone che in quel momento avvertivamo se non come antipatiche, odiose, e distanti dai nostri mondi, dai nostri interessi, certamente assolutamente irrilevanti per il nostro vissuto, presente e futuro.
Persone spesso prive di capacità di coinvolgimento di qualunque tipo, incapaci di far innamorare dei saperi che istituzionalmente avrebbero dovuto proporre, perché loro per prime non attratte dagli stessi. D’altro canto non possiamo neanche non ricordare una qualche maestra, od un qualche professore o professoressa, che in quelle ore che passava con noi ci intrigava, ci faceva sentire al centro della scena, coinvolgendoci in riflessioni che poi generavano spessissimo piuttosto che asserzioni, dubbi, domande, perplessità, come se avessimo dovuto abbandonare ogni certezza per scoprire il gusto della ricerca, e della fatica che accompagna ogni ricerca seria.
Studium, da cui il sostantivo italiano “studio”, è nell’orizzonte lessicale di noi italiani sinonimo di noia, pesantezza, insomma qualcosa da evitare assolutamente, perché non ci si diverte. Eppure il termine latino ha tutt’altro significato, e cioè “impegno”, “sforzo”, “tentativo”. Ed allora perché questo travisamento semantico? Forse se c’è impegno, c’è sempre noia? Se c’è sforzo, c’è sempre pesantezza, quasi disgusto?
Sosteneva un grande maestro, che prima era stato un pessimo studente, “animus pascitur, unde laetatur”, e cioè “nutre la mente ciò che la rallegra”. Il soggetto in questione è Agostino d’Ippona, che già nel V secolo dopo Cristo aveva capito che l’intelligenza si nutre di ciò che le procura godimento, soddisfazione.
Oggi, grazie ad esempio agli studi di Howard Gardner, abbiamo compreso che le funzioni intellettive legate all’apprendimento vengono ad essere esercitate con enorme profitto se si innesca contestualmente un processo emotivo che favorisca l’attenzione, che coinvolga il discente, facendolo sentire protagonista di questo processo che oggi gli specialisti approcciano da ambedue i lati dei protagonisti, definendolo correttamente dell'”insegnamento/apprendimento”.
Essere protagonisti di un processo di stimolazione/trasmissione dell’amore per la ricerca, per il sapere, significa inizialmente essere al centro della scena, per poi, avendo attratto l’attenzione di tutti gli spettatori, chiamare gli stessi a condividere il palcoscenico per recitare tutti insieme da co-protagonisti, in un processo in cui è solo l’esperienza che distingue il giovane ricercatore dall’anziano viandante sempre in cerca della verità, sempre alla conquista del sapere.
Ma questo significa condividere quella “curiosità”, quello “stupore”, che per i greci era al fondamento del desiderio con cui l’intelligenza dell’uomo si rapportava al mondo per conoscerlo, scoprirlo, comprenderlo, interagendo con lo stesso anche con la semplice osservazione.
E cos’è questa se non quella medicina dell’intelligenza che acquisiamo da bambini allorquando domandiamo, incessantemente almeno agli inizi, agli adulti il perchè di ogni fenomeno con cui ci confrontiamo? Ed il giorno, e l’oscurità della sera, e la scomparsa di un nonno, e la fatica del lavoro, tutto viene accompagnato dai bambini con la classica domanda di rito, “Perché?”.
Solo che spessissimo, poiché troviamo davanti adulti che non vogliono o non possono risponderci, invitandoci a non fermarci alle risposte che potremmo avere sul momento e dandoci elementi per costruire un metodi di analisi e di ricerca con cui reiterare queste stesse domande continuamente, questa iniziale capacità di trasformare tutto in problema, tutto in interesse, si trasforma in passività, indolenza, indifferenza di fronte al mondo con i suoi miliardi di aspetti, di fenomeni sempre nuovi, di avvenimenti sempre unici.
E così, per nulla coinvolti e protagonisti di ricerca, privi di alcuna curiosità, accogliamo con noia ed indolenza risposte che altri pensano soddisfare la nostra sete di sapere, quando al contrario l’uccidono, sclerotizzando la nostra predisposizione a far domande, a tentare di comprendere.
E quando la scuola diventa una dimensione seriosa, stancante, accidiosa, la partita è persa. Quanti studenti immediatamente, per preconcetto date le esperienze precedentemente vissute, non prestano attenzione al mondo? Può essere un’ossido-riduzione oppure la dimostrazione del teorema di Pitagora oppure la lettura di una commedia di Goldoni o di Eduardo, tutto sembra uguale, ripetitivo, amorfo…Quegli studenti sono spesso vittime non di loro stessi, di loro scelte, bensì della…scuola, che con qualche insegnate killer ha sottratto loro il gusto unico della ricerca, della conquista, della personale costruzione di un percorso finalizzato a soddisfare curiosità…
Non che quegli insegnanti siano tutti ugualmente degli assassini intenzionali, poiché loro per primi potrebbero essere stati vittime di metodiche di proposta del sapere che arrivavano a far odiare ciò che al contrario dovevano proporre, ma questo è. Purtroppo.
Ed allora quando nelle aule di qualunque scuola entra un docente atipico, un prof. all”Attimo fuggente”, l’eresia che diventa il capo d’accusa con cui la novità viene etichettata spiega la difficoltà che si ha a rapportarsi con il sacrificio che dà gusto, con la passione che ti fa stare ore ed ore anche sui libri, se hai compreso cosa di enorme si possa trovare negli stessi.
Questo però implica che, volendo ripensare l’organizzazione della scuola come istituzione in cui avviare alla ricerca del sapere, si dovrebbe partire dalla straordinaria intuizione di Wittgenstein: tutto parte da quando si è ingenui ed autentici “filosofi” votati a domandare trecento volte all’ora “Perché?”, ed è pertanto alla scuola dell’infanzia, alla scuola primaria che dobbiamo prestare la maggiore attenzione. Noi invece facciamo l’esatto contrario.
Vi siete domandati perché mai da diversi decenni gli insegnanti elementari godano di ben poca considerazione sociale, pur venendo loro affidati i nostri piccoli quando sono tremendamente curiosi, lavorando ben più degli altri insegnanti della scuola stata italiana, con retribuzioni inversamente proporzionali rispetto alla mole di lavoro imposta dal CCNL? E perchè al contrario a docenti universitari che magari sanno quasi tutto del loro piccolo centimetro quadrato di specializzazione tecnocratica, senza che però effettivamente conoscano il mondo, si concedano massima considerazione e stipendi elevatissimi a fronte di carichi di lavoro ben inferiori rispetto ai colleghi degli altri gradi dell’istruzione?
Se vogliamo ripensare il mondo dell’istruzione, forse dovremmo partire da questa consapevolezza: si apprende quando c’è la volontà di farlo (come sosteneva la fenomenologia husserliana, e prima ancora la gnoseologia medievale), e perchè questo avvenga chi apprende deve essere responsabilizzato e portato al centro della scena diventando lui stesso attivo ed operoso protagonista del suo percorso di ricerca della verità, esattamente come voleva Agostino, secondo il quale il vero maestro viene ad esser colui il quale lascia la scena all’allievo che è diventato pienamente capace di procedere da sè.