di A. Rosanna – In Giappone il lavoro è una vera religione, tanto che le ore lavorative settimanali toccano alcune volte quota 80 e non è difficile vedere aziende che richiedano qualcosa come 100 ore di straordinari al mese.
Gli uomini lavorano così tanto che per combattere lo stress si ubriacano dopo il lavoro, ma spesso esagerano e la sera non riescono a tornare a casa. Così la mattina dopo li si vede nei negozi del distretto finanziario di Nagoya, di Osaka o della capitale, in fila per comprare una camicia e una cravatta.
E non è vero che in Giappone non ci sono ferie. In realtà non le utilizzano. Dei 10 giorni all’anno di ferie (davvero pochi) i lavoratori giapponesi ne prendono solo la metà, e solo il 5% dei neo papà prende il congedo paternità (tra i più lunghi al mondo, ben 1 anno).
Il duro lavoro nelle aziende giapponesi è così intenso che alcune persone muoiono. Con l’espressione karōshi, si intende proprio la morte per troppo lavoro.
Ma come si è arrivato a questo? Il sistema lavorativo giapponese è nato alla fine della seconda guerra mondiale, quando i soldati sconfitti abbandonarono le uniformi e si trasferirono dal campo di battaglia alle scrivanie negli uffici, pronti a combattere un’altra guerra, anche fino alla morte.
Questo esercito ha reso possibile il miracolo economico giapponese.
Questo miracolo era suggellato da un patto di sangue. I lavoratori avrebbero dato tutto per l’azienda e l’azienda si sarebbe presa cura dei suoi lavoratori in tutto e per tutto. Asili, cure sanitarie, assistenza extra, aumenti di stipendio regolari, generose indennità e soprattutto la garanzia di un impiego per la vita. Così i legami lavorativi divennero più solidi di quelli familiari.
Ora però qualcosa si è rotto.
Il Giappone ha la produttività più bassa dei paesi del G7. Le aziende cominciano a non guadagnare più come prima, e non possono così garantire più un posto fisso.
Per le donne avere un figlio vuol dire uscire per sempre dal sistema lavorativo, infatti è quasi impossibile riprendere la carriera dopo il parto, tanto che la maggior parte decide di non tornare al lavoro dopo la gravidanza.
E i giovani? Molti si rifugiano in lavori precari, come il cameriere o il commesso, con salari molto bassi, pur di scampare ad un destino massacrante e deprimente. E di fatto decidono di non passare mai a lavori più “stabili”.
C’è da dire che per molto tempo si è continuato a dire che non esisteva nessun problema in Giappone, e questo non ha fatto bene al paese. Oggi il governo e gli imprenditori ammettono che esiste un problema, ma non riescono ne a risolverlo, ne a capire da dove iniziare.
Dopo che un dipendente della Dentsu è morto, la pressione per creare ambienti di lavoro più vivibili sta aumentando. Soprattutto perché le aziende note per le condizioni di lavoro troppo dure non riescono a trovare dipendenti. Alcune aziende si stanno impegnando per cambiare le cose. É nato addirittura un nuovo lavoro, un consulente specializzato nel benessere dei dipendenti e nel capire come migliorare le condizioni psicologiche e sociali negli ambienti lavorativi.
É ovvio che il muro da abbattere è culturale. Sebbene ci siano società all’avanguardia, in Giappone tutta la società è ancora dominata da forti spinte conformiste e omologatrici.
É ovvio che è ora di cambiare, ma il cambiamento è lento, fa male perché prevede l’errore, lo sbaglio. Sbagliare è doloroso, ma certe volte inevitabile.
I tempi sono maturi perché il mondo del lavoro cambi, e quello del Giappone è solo uno dei numerosi indizi che ormai parlano chiaro: il lavoro così come concepito, appartiene ad un’altra era. É ora di andare avanti.