“C’è sempre un’alternativa“, come disse Spock. Il trucco che stanno usando è farci credere che non esistano alternative all’euro e alla crescita del PIL. Beppe Grillo
Intervento di Joe Stiglitz e Mauro Gallegati
“Cosa accadrà in caso di default ed abbandono delleuro? Come uscire dalla crisi sfruttando lopportunità del cambiamento? Non proponiamo nuove strategie di crescita, ma un diverso modo di vivere e produrre. A tal fine, individuiamo una strategia dal basso (da noi tutti abitanti questo Pianeta) ed una dallalto.
La diminuzione del tasso di profitto del settore reale nei Paesi avanzati ha generato un’espansione del settore finanziario che ha garantito la tenuta del sistema fino allo scoppio della bolla immobiliare nel 2007. La crescita del profitto ha portato alla necessità di reinvestire i risparmi accumulati. Il rallentamento delleconomia reale nei Paesi avanzati ha implicato una fuoriuscita di risorse da questo settore non più remunerativo, incentivando la delocalizzazione produttiva e linvestimento finanziario in attività sempre più rischiose e complesse. Liniezione di liquidità effettuata a più riprese dalle banche centrali americana ed europea non ha sortito rilevanti effetti positivi sulleconomia reale dei Paesi occidentali, mentre le banche hanno ripreso a speculare grazie alla maggiore liquidità a disposizione, accrescendo i propri profitti. Il salvataggio delle banche, con la conseguente socializzazione di perdite private, è importante per la salvaguardia del risparmio del ceto medio. Però non è da escludere unazione di indirizzo pubblico da parte dello Stato che ha investito risorse per salvare il sistema. Inoltre, il salvataggio bancario non è in grado di risolvere da solo lattuale crisi. Infatti, non influisce sul problema di fondo, cioè una divergenza tra una produttività crescente e una capacità di acquisto stagnante o calante. In aggiunta, il salvataggio delle banche da parte degli Stati ha fatto lievitare il debito pubblico, già elevato in alcuni Paesi come lItalia. Quindi un problema è diventato ridurre il peso del debito pubblico rispetto al prodotto interno.
La strada che i governanti europei stanno seguendo è quella dellausterità, alcuni hanno proposto il ripudio del debito e luscita dallEuro. Il ritorno alle monete nazionali renderebbe nuovamente disponibile ai singoli Paesi lo strumento della politica monetaria per garantire il debito pubblico mediante lintervento della propria banca centrale. Questa strategia può presentare una serie di criticità. La principale è che colpirebbe pesantemente il ceto medio, lo stesso che ora sta pagando i sacrifici richiesti dalla strategia di austerità.Questo gruppo di persone verrebbe colpito sia direttamente che indirettamente. Direttamente, dato che i titoli di Stato sono la forma di risparmio principale dei piccoli risparmiatori (lincidenza dei titoli di Stato italiani nel portafoglio di un grande imprenditore che può permettersi di investire allestero o portare le proprie attività in Lussemburgo o alle Isole Cayman è minima rispetto allincidenza sul portafoglio di un piccolo risparmiatore). Il default dovrebbe quindi essere selettivo, per colpire solo i titoli posseduti da alcuni soggetti (ad esempio, le istituzioni finanziarie estere) e ripagarli invece se posseduti da altri (ad esempio, lavoratori e pensionati). Al danno diretto si aggiungerebbero una serie di danni indiretti. Luscita dallEuro propedeutica ad una svalutazione della moneta (una nuova lira o un euro dei PIGS?), che faccia recuperare competitività al Paese, porterebbe nellimmediato ad una probabile impennata dellinflazione (le materie prime quali petrolio e gas, sarebbero molto più care) e ad un peggioramento del potere dacquisto e degli standard di vita. Inoltre, anche leffetto benefico sulle esportazioni nel medio periodo potrebbe non avere la stessa ampiezza ottenuta dalla svalutazione del 1992, quando la competizione di prezzo dei Paesi emergenti non aveva raggiunto i livelli degli anni 2000, dopo lingresso della Cina nel WTO. Un default implicherebbe una perdita di credibilità sui mercati internazionali che, per un certo periodo, eviterebbero di finanziarci (se non a tassi elevatissimi). La mancanza di credito e di investimenti potrebbe acuire la recessione. Infine, luscita dallEuro dellItalia sarebbe probabilmente causa dellarchiviazione dellesperienza della moneta unica, il che potrebbe implicare la fine del processo di integrazione europea, poggiato principalmente su basi economiche.
Lattuale modello di sviluppo, basato sull’utopica credenza di una crescita senza fine, che non distingue beni da merci, genera insostenibili disuguaglianze e provoca sempre più forti criticità ambientali. Bisognerebbe puntare allinnovazione, alla cultura ed ai servizi, beni prevalentemente immateriali, ma che spesso hanno un forte legame con i territori. Ciò che proponiamo come un abbozzo per un nuovo modo di vivere si può riassumere nella frase: “Lavorino le macchine, noi godiamoci la vita“. A tal fine occorre ripensare e ridisegnare in modo integrale la vita umana dominata dallimperativo dellaccumulo di denaro, della produzione e dellacquisto di merci. Ma in tutti i continenti, in tutte le nazioni, oltre al malessere dovuto ad un tale modello di vita, stanno emergendo fermenti creativi che spingono in altre direzioni: i movimenti delle popolazioni di Centro e Sud America contro lo sfruttamento dei suoli e delle acque, il microcredito nato in Asia e affermatosi anche nel mondo occidentale, i Gruppi di Acquisto Solidale che mettono al centro i principi di eticità e sostenibilità, ricostruendo la relazione tra il consumatore, spesso urbanizzato, e i produttori, i Movimenti per la decrescita che propongono cambiamenti dal basso, azioni pratiche per stili di vita sobri e sostenibili, a chi sperimenta una vita senza petrolio nelle “transition town“.
Ci sono comportamenti di cittadini/consumatori/produttori, che potrebbero innescare soprattutto in questa situazione di crisi il virus del cambiamento, ma anche nuovi punti di vista di governi che stanno ricercando indicatori più adatti del PIL per misurare il benessere di una nazione. Nel Bhutan il “Gross National Happiness“, LEcuador e la Bolivia che mettono il “buen vivir” nelle loro Costituzioni, lAustralia con “Measures of Australias progress“, il “Canadian Index of Wellbeing“. Misure che dovrebbero esser differenti da Paese a Paese. Ricordava Fuà [1]: “Un singolo modello di sviluppo e di vita (oggi quello concentrato sulla crescita delle merci) viene proposto ed accettato come lunico valido; bisognerebbe invece apprezzare che ogni popolazione cerchi la via corrispondente alla sua storia ai suoi caratteri, alle sue circostanze e non si senta inferiore ad unaltra per il solo fatto che quella produce più merci.” Poiché viviamo un momento di transizione tra uneconomia delle merci ed uneconomia dei servizi occorrerà inventare nuovi lavori, magari a ritmi più umani, dematerializzando le nostre produzioni. Per il nostro Paese, unindicazione ci può venire dal recentissimo Rapporto 2012 sullIndustria culturale in Italia: “LItalia che verrà“, di Unioncamere, Fondazione Symbola e Regione Marche. I settori coinvolti da questa indagine, sono quelli classici dei Beni culturali: architettura, design, industrie creative e culturali che, in contro tendenza, mostrano il livello delloccupazione (il 5,6% del totale degli occupati) salito dello 0,8%, a fronte di un arretramento medio dello 0,4% (periodo 2008-2011). Allargando il campo ad altri settori dellunicità italiana, produzioni agricole tipiche, il turismo legato alla capacità attrattiva della cultura, le attività legate al recupero del patrimonio storico, attività di formazione collegate, gli occupati salgono al 18,1% degli occupati a livello nazionale. Ritornando alla frase di Fuà, non sarebbe il caso di individuare nel valore aggiunto del settore cultura, alla sua unicità, in quello del suo indotto e dei comparti meno formali che ad esso possono essere legati, la nostra vera fonte di ricchezza? I tempi del cambiamento sono lunghi. Un’accelerazione può venire solo dallalto. In questa prospettiva, ci si dovrà attrezzare per utilizzare gli incrementi di produttività per lavorare di meno, redistribuire il reddito via fiscalità (vedi J.E.Stiglitz, The price of inequality Norton, 2012), promuovere la progressiva introduzione del reddito di cittadinanza e della partecipazione agli utili di impresa. Solo se riusciremo a cambiare il modo di vivere di oggi avremo un domani. Ma per far ciò abbiamo tutti bisogno di un movimento che aiuti a renderci consapevoli e che cambi il modo di far politica. Come provano a fare gli Indignados, gli Occupy Wall Street e il M5S “. Joe Stiglitz e Mauro Gallegati
[1] Crescita economica. Le insidie delle cifre, Giorgio Fuà, Il Mulino, 1993.