di Matteo Incerti – Questa è la storia di una piccola grande favola di Natale. Tutto probabilmente ha inizio una notte di metà marzo, in uno dei primi giorni di chiusura dell’Italia a causa del Coronavirus. L’amico Wendall Nadjiwon, un nativo Ojibwa figlio del grande capo tribù di Cape Croker Wilmer Nadjiwon, artista, attivista per i diritti civili e ambientali e veterano canadese della Campagna d’Italia durante la seconda guerra mondiale, mi volle omaggiare con alcuni insegnamenti.
“Quando arrivarono i primi coloni nella nostra società fu introdotto un concetto a noi sconosciuto: l’avidità. – mi spiegò – Da sempre eravamo stati abituati a condividere. Per tantissimi anni noi abbiamo condiviso tutto, anche con i coloni che erano arrivati qui. Per noi era naturale. Poi l’avidità ha distrutto tutto. La creazione può unire tutti noi, ma non dobbiamo essere avidi. Condividere è la vita, non l’avidità”.
Condividere. Quella parola mi è rimasta nella mente. Mi ha riportato a concetti moderni e antichi al tempo stesso. Alla rete che potenzialmente mette in relazione milioni di persone in tutto il mondo. La puoi sfruttare positivamente o negativamente. Alla condivisione del sapere e dei beni, perchè nessuno venga lasciato indietro e si possa vivere in equilibrio con la natura. Wendall aggiunse “Questo tempo, durante la quarantena, dà a tutti l’opportunità di pensare a ciò che è importante. Forse le persone inizieranno a porsi la domanda, su ciò che è importante per loro. La Terra è tutto ciò che abbiamo, e se avessimo rispetto per lei fornirebbe più di quanto possiamo sperare. Guarda Greta Thunberg, non sta dicendo che la Terra sta diventando più calda o più fredda. Sta dicendo a tutti noi che c’è qualcosa di sbagliato nel modo in cui stiamo pensando a lei”.
“La perdita dell’habitat naturale è il nostro grande problema al mondo, anche per gli esseri umani. La ricchezza materiale può tenerti occupato solo nel cercare di mantenerla. Invece le nostre vite sono da condividere con il prossimo” aggiunse in un messaggio della tribù degli Oijbwa di Cape Croker nell’Ontario.
Da tempo, per esperienze personali, penso che tutto nella vita sia collegato. C’è un filo che ci lega e che dobbiamo solo imparare a seguire. Così quegli insegnamenti di Wendall, che sono anche parte del mio ultimo libro “I pellerossa che liberarono l’Italia”, una sera i primi di dicembre mi hanno portato su una pagina Facebook di storie di veterani canadesi e statunitensi della seconda guerra mondiale, dove Rachelle Adler la figlia di un arzillo veterano 96enne chiamato Martin, originario del Bronx aveva pubblicato una foto.
Quella del papà in Italia con il 339esimo reggimento della 85° US Infantry nell’ottobre del 1944 con tre bambini. Martin, originario di una famiglia ebrea ungherese emigrata a New York nei primi anni ’20, da mesi stava soffrendo con la moglie al chiuso della sua pur bellissima casa di Boca Raton in Florida. Sua figlia aveva condiviso alcune sue memorie, alla ricerca di quei tre bambini per donargli un momento di gioia. “E’ il ricordo più bello in un anno e mezzo vissuto nelle sofferenze e nell’orrore della guerra in Italia” mi raccontano Martin e la figlia.
Da oltre dieci anni, nel tempo libero amo raccogliere e raccontare, nei miei articoli prima e poi sui libri, queste microstorie incredibili nate dal buio della seconda guerra mondiale e della dittatura nazifascista e riannodarle nei nostri giorni oltre il tempo, la distanza, i confini. Un modo per spiegare la favola della vita, raccontare gli orrori della guerra (incluso il dramma dello stress post traumatico) e di ogni dittatura perché non si ripetano mai più. Tutto raccogliendo microstorie di memoria e renderle vive. Perché un uomo che non conosce la Storia è come un albero senza radici. Tutto grazie alla passione per la ricerca storica, alla Rete, la collaborazione di tante persone, studiosi e appassionati (niente nasce dalla esclusiva bravura di un singolo, è il frutto della cooperazione tra tanti), al fato, e perché no, alla…fortuna.
Mi era già accaduto con la storia de Il bracciale di sterline e i suoi cinque grandi amori nati durante una missione segreta anglo-partigiana con storie di passioni e vite salvate riunite dall’Italia all’Australia, Spagna, Scozia e Stati Uniti. Nel Il Suonatore Matto con la vicende di un eroe per caso, lo scozzese David ‘mad piper’ Kirkpatrick che si paracadutò in kilt e con la sua cornamusa contribuì come per magia ad evitare la rappresaglia nazista al paese di Albinea, in Si Accende il Buio quando rintracciai la famiglia di un soldato tedesco che nell’agosto 1944 disobbendo agli ordini fece nascere e salvò dalla rappresaglia un bambino dell’Appennino reggiano. O le storie de I pellerossa che liberarono l’Italia, la storia inedita di volontari delle tribù native del Canada e Stati Uniti che vennero a combattere e morire in Italia per liberarci dal nazifascismo, benché fossero ancora discriminati nelle riserve.
Ho contattato la figlia di Martin. Le ho detto: condividiamo in rete questa storia, ne ho già trovate altre. Ne potrebbe nascere una favola di Natale. Dopo aver individuato con ricerche la zona d’intervento del soldato Martin Adler nell’Appennino tosco-bolognese, ecco il primo post la sera del 10 dicembre 2020 . In poche ore è diventato virale con migliaia di condivisioni. Se ne è occupata la stampa locale bolognese e sabato 12 dicembre il TG1 con il direttore che raccoglie l’appello facendo servizio pubblico.
Tantissime persone, neanche immaginavo quante, dopo mesi di sofferenza sognavano una Favola di Natale. Tutti sembravano voler trovare quei tre bambini del 1944 con ricerche e appelli lanciati anche dal presidente della Regione Emilia-Romagna. Dalla rete ai media tradizionali era ancora la condivisione a vincere. Fato, magia e destino hanno fatto il resto.
Domenica sera 13 dicembre, la sera di Santa Lucia su messenger mi arriva un messaggio. E’ la badante rumena di un amico di Bruno, il bambino della foto originario di Monterenzio che con le due sorelle Mafalda e Giuliana ora vive a Castel San Pietro in provincia di Bologna. Con il suo assistito è andata al parco. Ha incontrato per caso quel bambino del 1944. Lui e le sorelle si sono riconosciuti nella foto ma non sanno come contattarmi. Ci pensa lei, la badante rumena! Ha facebook. “Buonasera sig. Matteo c’è un signore di 83 anni che si è riconosciuto nella foto, vorrebbe parlare con lei…”. Ecco Bruno, Mafalda e Giuliana Naldi da Monterenzio. I bambini del soldato Martin!
Il resto della storia è noto un po’ a tutti con oltre 223.000 articoli pubblicati in tutto il mondo in ogni lingua. Una favola di Natale di umanità, condivisione, amicizia oltre il tempo e i confini che forse in maniera inconscia aspettavano un po’ tutti, visto l’eco che ha avuto. Ne hanno parlato in ogni lingua del mondo, giapponese , arabo, greco, in India, sul New York Times, sulla National Public Radio statunitense oltre che su tutti i media italiani e persino Oltre Tevere.
Martin, dopo gli orrori della guerra per tutta la vita ha aiutato il prossimo. A 96 anni si è ritrovato al centro del mondo, felice per aver ritrovato i bambini dell’ottobre 1944. Felice come me e sua figlia Rachelle di aver donato un sorriso e buoni sentimenti al prossimo. In ogni lingua, religione, credo politico. Per chi voleva coglierli. Sto scrivendo il libro sulla storia della sua vita – che è ancora più incredibile e bella – e il suo grande sogno dopo essersi vaccinato è quello di poter venire in Italia la prossima estate a riabbracciare i “suoi bambini”. Da Roma agli Appennini Bolognesi, alla pianura del Po al Veneto, a Napoli dove arrivò e partì dal mare. Perché il segreto è sempre uno: condividere. Perché nessuno potrà mai farcela da solo. Come da solo, io non avrei mai potuto ricostruire queste storie e riannodare questi fili dispersi nel tempo. Solo condividendo, aiutandoci gli uni con gli altri supereremo e ripartiremo. Proprio come accadde ai ragazzi come Martin e i bimbi Bruno, Mafalda e Giuliana dopo gli orrori della guerra e della dittatura. Grazie a tutti.
p.s. Desidero dedicare questa piccola favola di Natale alla memoria di Carlotta Guareschi, la Pestifera figlia dei memorabili racconti del padre Giovannino. Prigioniero in un lager nazista scrisse nel dicembre del 1944 la più bella “Favola di Natale” dove il figlio Albertino insieme a tanti altri piccoli andavano alla ricerca dei loro papà. Perché solo nel Mondo Piccolo dell’Emilia poteva nascere nel 1944 e concludersi nel 2020 una storia così. Come mi scrisse nel 2011 Carlotta con Alberto dopo aver letto il mio primo libro “avete riallacciato fili sospesi sparpagliati nel Mondo, siete riusciti a salvare queste storie e a dimostrare che il mondo è veramente piccolo”. Mi piace pensare che questa sia stata lei con tanti vecchietti delle mie storie ora tornati lassù a riannodare quei fili. Con quella Rete che piaceva a Gianroberto Casaleggio.
L’AUTORE
Matteo Incerti (Reggio Emilia, 1971), giornalista e scrittore di romanzi storici basati su storie realmente accadute. Dal 2013 è addetto stampa in Parlamento per il gruppo del Movimento 5 Stelle. Ha collaborato con Il FattoQuotidiano.it, Radio Bruno, la rivista Valori.it, Blog di Beppe Grillo, Il Resto del Carlino e Il Gazzettino, per il quale è stato corrispondente free lance per l’area Paesi Bassi, Belgio, Scandinavia tra il 1996 e il 2001. Il Bracciale di Sterline scritto con Valentina Ruozi (2011) è il suo primo romanzo storico riproposto nel 2020 in versione aggiornata, a cui sono seguiti Si accende il buio con Johannes Lubeck (2012), Il paradiso dei folli (2014), Il suonatore matto (2017) ripubblicato nel 2020 da corsiero editore e I pellerossa che liberarono l’Italia (2020), giunto alla terza edizione e finalista del premio nazionale di Storia Monte Carmignano per l’Europa. Per ringraziarlo del suo lavoro di memoria sul contributo delle First Nations canadesi alla Liberazione d’Italia, la tribù cree Mosquito Grizly Bear Head Lean Men nello Saskatchewan, lo ha omaggiato con il nome totemico di Soaring Eagle-Pa pa mi sut ki hiw – Aquila Svettante.