de L’Elevato – L’evoluzione, si sa, è il risultato di cambiamenti casuali nei processi riproduttivi. La cecità di questa meccanica è resa “visibile” da una frase icastica del chimico Peter Atkins: “una volta che le molecole hanno imparato a competere fra loro e a creare altre molecole a loro immagine, elefanti, e cose simili agli elefanti, si troveranno a tempo debito a vagare attraverso le savane”.
Dunque l’evoluzione biologica non segue nessun piano, dipende solo da cambiamenti casuali, quali che siano. Quelli più adatti (fittest) finiranno per prevalere attraverso la selezione naturale. Qui sta la terribile bellezza del darwinismo: nessuna volontà, nessun senso, nessun fine.
L’economia basata sulla proprietà privata si fonda sulla stessa meccanica. L’efficienza della proprietà privata non dipende dunque dalle prodigiose capacità dei proprietari, ma da una meccanica molto simile a quella della selezione naturale biologica, che gli economisti chiamano “distruzione creatrice”. D’altronde la teoria dell’evoluzione biologica è tributaria, per stessa ammissione di Darwin, della teoria economica classica.
Tuttavia, diversamente dalla selezione naturale, il funzionamento della distruzione creatrice non dipende da processi chimici e biologici, ma dalle regole della società. Dunque, mentre la velocità dell’evoluzione biologica è strutturale e tende a essere lentissima, quella dell’evoluzione economica e sociale è “programmabile” e può essere più o meno veloce a seconda delle regole che la governano.
Questa sostanziale differenza non deve però indurre a ritenere che l’evoluzione economica e sociale non dipenda (solo) da mutamenti casuali e meccaniche selettive a posteriori, e possa (anche) dipendere dalle “visioni”. In genere quando qualcuno ha una “visione” sarebbe meglio chiamare un dottore, se non un’ambulanza. Tuttavia, anche quando alcune di esse si rilevano per essere azzeccate, è sempre impossibile prevederlo ex ante, ma occorre sperimentarle nella realtà economica sociale per capire se sono destinate a sopravvivere o soccombere.
Ciò non significa, sia chiaro, negare l’utilità delle visioni di grandi uomini, ma riconoscere che anche fra queste visioni operano le stesse meccaniche selettive dei cambiamenti casuali. Dunque per l’evoluzione economica e sociale sono più importanti le regole che favoriscono i cambiamenti di quelle che favoriscono le (vere o presunte) Grandi Visioni di (veri o sedicenti) Grandi Uomini.
Fra queste regole ci sono quelle che favoriscono il ricambio dei gestori prima che le imprese collassino. Negli Stati Uniti, per esempio, ci sono diverse regole che favoriscono il ricambio dei gestori nelle società quotate, da quelle sulle offerte pubbliche d’acquisto, a quelle sulla raccolta di deleghe, a quelle sul cosiddetto attivismo societario, e così via.
Regole che favoriscono il ricambio dei gestori esistono, in teoria, anche nei sistemi politici democratici. Tuttavia in questi casi l’interesse dei cittadini è troppo parcellizzato rispetto allo sforzo necessario per sostituire i governanti, sicché accade che gli unici a farlo siano i cittadini il cui unico obiettivo è di sostituire sé stessi ai governanti di cui si chiede il ricambio, e non di tutelare meglio l’interesse dei cittadini.
Per questa ragione appare sempre più opportuno estendere l’applicazione delle regole che pongono un limite alla durata dei mandati. Queste regole hanno goduto di una certa fortuna in alcuni ambiti del settore pubblico, quali i giudici della Corte Costituzionale. Ma il limite alla durata dei mandati si giustifica anche nell’esigenza di porre un limite a un potere rilevante, come per esempio quello del Presidente degli Stati Uniti.
Alcuni obiettano – soprattutto fra i gestori che si arroccano nel potere – che un limite alla durata dei mandati non costituisca sempre l’opzione migliore, in quanto imporrebbe di cambiare i gestori anche quando sono in gamba: “cavallo che vince non si cambia” sembrano invocare ebbri di retorica da ottimati. Ciò è ovviamente possibile, ma il dilemma può essere superato in altri modi, senza per questo privarsi di una regola la cui funzione è di prevenire il rischio di sclerosi del sistema di potere, se non di una sua deriva autoritaria, che è ben maggiore del sacrificio di qualche (vero o sedicente) Grande Uomo.