di Petra Reski – In una situazione di emergenza, l’uso di un defibrillatore può salvare la vita di qualcuno. Il referendum per l’autonomia di Venezia e Mestre ha avuto per noi a Venezia lo stesso effetto: rappresenta una scarica ad alta energia che ci ha messo in uno stato di fibrillazione. Fino a poco fa, Venezia dimostrava tutti i sintomi di un arresto cardiaco: ridotta ad un parco di divertimenti, calpestata da 33 milioni di turisti all’anno, abitata da poco più di 52 000 anime, governata non da sindaci, ma da predicatori del fondamentalismo turistico di cui fede prevede: “Veneziani fuori, turisti dentro”. Dichiarata moribonda e valutata come macchina da soldi e non più come spazio vitale, commiserata dagli esperti mondiali del turismo come un curioso caso clinico: parlano del “modello Venezia” quando cercano un esempio di come il turismo di massa annienti una città.
Ma siccome non bastava per ammazzare Venezia del tutto, ci voleva ancora il colpo di grazia con il megaprogetto cinicamente chiamato MOSE, acronimo di Modello Sperimentale Elettromeccanico: un sistema di dighe mobili, opera faraonica con un costo di 7 miliardi di euro, nonché il più grande scandalo italiano dal dopoguerra (un miliardo di euro per tangenti). Funzionari e politici si sono fatti corrompere in modo sistematico – a livello locale e nazionale. L’effetto su Venezia: la laguna si è trasformata in un braccio di mare. Non meno, ma più acque alte. Dopo il 12 novembre 2019: dieci acque alte eccezionali, di cui uno apocalittico di 1,87 metro, solo sette centimetri sotto l’acqua granda di 1966.
Il delicato equilibrio lagunare cominciò a vacillare ai tempi del fascismo quando un gruppo di imprenditori col fiuto per gli affari costruì il porto industriale di Marghera e il polo petrolchimico con il seguente scavo dei canali. Al contempo, costoro costrinsero Venezia al matrimonio forzato con la terraferma che perdura fino ad oggi. 180.000 abitanti, la grande maggioranza della popolazione del comune, vivono sulla terraferma, motivo per cui i reali 52 000 veneziani sono in minoranza. E e anche con gli abitanti dell’estuario la proporzione è sempre in favore degli abitanti della terraferma: 180 000 mestrini contro i 79 000 abitanti di Venezia insulare – vuol dire che sono gli abitanti della terraferma che votano il sindaco.
Il primo dicembre, i veneziani tenteranno per la quinta volta di sfuggire alla convivenza forzata con la terraferma. Con il referendum intendiamo ottenere una propria amministrazione – affinché possiamo finalmente tornare a decidere noi il nostro proprio destino. Ovviamente è assurdo che non sono solo i cittadini veneziani che votano al referendum, ma anche quelli della terraferma – un po’ come se la città di Shenzhen con i suoi 11 milioni di abitanti partecipasse ad un referendum sull’autonomia di Hongkong con 3 milioni di abitanti.
E come se non bastasse, tutti i politici veneziani responsabili dei disastri degli ultimi decenni si dichiarano ferocemente contro il referendum e invitano gli elettori ad astenersi al voto – e questo la dice lunga sul loro concetto di democrazia. L’attuale sindaco Luigi Brugnaro ha vinto le elezioni nel 2015 con la promessa del referendum – la quale si è rivelata una promessa da marinaio appena Brugnaro era al potere. Ci volevano anni di lotte giuridiche finché il Consiglio di Stato in settembre 2019 ha annullato la sentenza del Tar e ha dichiarato legittimo il referendum consultivo sulla suddivisione del Comune di Venezia in due comuni autonomi di Venezia e Mestre. Negando il referendum, del resto, si avrebbe una discriminazione dei cittadini interessati, che verrebbero privati del diritto costituzionale di esprimersi sul cambiamento dei loro assetti comunali. Il 25 settembre, Luca Zaia, presidente della Regione Veneto comunica che il referendum si terrà il primo dicembre. E da quel momento, a Venezia niente è più come prima.
La campagna referendaria viene sostenuta soprattutto da noi cittadini veneziani e da associazioni cittadine come Venessia.com, Gruppo25aprile o WeAreHereVenice che si impegnano da una vita per la sopravvivenza di Venezia. I dibattiti sul referendum si trasformano in assemblee cittadine, il teatro Goldoni sta per scoppiare con la gente fuori in calle, le sale dell’Ateneo Veneto si gremiscono di cittadini in stivali di gomma. Neanche l’acqua alta ci può frenare. Per la prima volta da decenni abbiamo una speranza.
La politica veneziana ha fatto salti mortali per addolcire l’abbraccio mortale di Venezia con la terraferma, sono gli stessi che ancora oggi predicano in maniera patetica i NO per il referendum con frasi fatti imbarazzanti come “si impara”, “è una prova importante”, “è storicamente fondato“. Venezia non è un “centro storico” e ancora meno una “città bipolare”, espressione partorita dall’assessore più longevo del Comune (13 anni al governo, prima come assessore all’Urbanistica, poi ai Progetti speciali) che era apparentemente ignaro del fatto che il bipolarismo è un grave disturbo psichiatrico. Quello che viviamo qui non è un “utopia” come ci viene predicato da trent’anni, ma un incubo. Vuol dire che bisogna cambiare registro.
Quando andiamo in giro a distribuire volantini, ci sono i vigili che ci inseguono, non li abbiamo mai visti muovere in maniera organica come adesso: La casta politica aizza gli elettori a non votare e il sindaco manda i vigili a case private per rimuovere le bandiere per il referendum. Il comune praticamente ogni ora diffonde Fake News, sulle tariffe del trasporto urbano, sui costi amministrativi, sull’aeroporto (che è gestito da un’azienda privata), sullo Statuto Speciale che non viene deciso dall’Italia, ma dall’Europa. Ma per quanto cercano a intimorire i cittadini, noi votiamo SÌ.
Per Venezia il Sì significa un’amministrazione comunale che si occupa a tempo pieno degli interessi di Venezia e dell’Estuario, significa tutela per la laguna essendo il nostro polmone e la difesa della nostra salute: Venezia è la città portuale più inquinata dell’Italia. Il Sì rappresenta non solo il coordinamento dei flussi turistici, ma anche uno Statuto speciale per una città speciale – in base al Trattato di Lisbona, fino ad ora non ottenibile perché due terzi del comune si trovano in terraferma. Grazie allo Statuo Speciale potremmo ottenere esenzioni e sgravi fiscali per attrarre aziende e stimolare un’economia oltre la monocultura turistica. Venezia deve diventare un laboratorio per il futuro che si confronta con le due grande sfide dei nostri giorni: il clima e l’overtourism, ovvero il sovraffollamento turistico. Due conseguenze dirette del neoliberalismo che domina non solo l’Europa, ma il mondo da trent’anni.
L’autonomia migliora anche la vita per Mestre che adesso si può solo vantare per il primato dei morti per droga e dei centri commerciali, essendo considerata nient’altro che un dormitorio senza nessuna visione urbanistica. Facendo parte di Venezia, Mestre ha le imposte più alte fra quelli italiani, ma senza ricevere benefici. Con l’autonomia pagherebbe meno TARI e IMU. Con un’amministrazione che curi solo gli interessi di Mestre, la terza città del Veneto e la diciottesima d’Italia, servita dall’terzo aeroporto dell’Italia, potrebbe finalmente sviluppare le sue potenzialità – con progetti culturali e come polo del turismo della terraferma valorizzando la sua vicinanza alle ville venete e potrebbe finalmente riprendersi la sua identità storica. Mestre potrebbe anche chiedere più fondi sia regionali e anche europei, senza essere attaccata a Venezia.
La nostra lotta per l’autonomia di Venezia e di Mestre è molto più di una lotta per un’altra amministrazione locale. È una lotta per la sopravvivenza di una cultura contro la mercificazione della nostra vita quotidiana. Comunque vada l’esito del referendum, la miccia è accesa.