di Giuseppe Conte – La proposta di introdurre anche in Italia il “salario minimo” stenta a decollare. Il dibattito politico langue e le forze politiche che – è il caso del Movimento 5 Stelle – stanno portando avanti, con convinta determinazione, questo progetto di riforma, sono chiamate a superare vari ostacoli, che rischiano di tenere distante questa giusta meta.
Proviamo ad approfondire questo tema, sgombrando il terreno di discussione da false mitologie.
In primo luogo, nessuno può dubitare che questa riforma sia pienamente attuativa di un principio costituzionale, tra i più incisivi e lungimiranti della nostra Carta, secondo cui il lavoratore ha diritto a una retribuzione che sia non solo proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro, ma in ogni caso “sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
Oggi in Italia ci sono all’incirca 4,5 milioni di lavoratrici e lavoratori che ricevono retribuzioni, in busta paga, ben al di sotto di quella soglia minima che vale a rendere libera e dignitosa la propria esistenza e quella dei propri familiari a carico.
Questa penalizzante condizione affligge soprattutto giovani e donne. Se infatti assumiamo quale misura di riferimento, la soglia di 9 euro lordi l’ora, nell’area della “sotto-retribuzione” ritroviamo – sulla base dei dati forniti dall’Inps – il 38% di giovani e il 16% di over 35 anni; mentre il 21% sono uomini e il 26% sono donne. I settori di attività più esposti sono il turismo, la ristorazione, la logistica, i beni e le attività culturali, le attività di cura e assistenza delle persone.
In Italia questo fenomeno sta assumendo una dimensione così importante anche perché è ormai dagli inizi dell’ultimo decennio del secolo trascorso che non registriamo aumenti salariali. Al contrario, hanno subito una riduzione media di oltre il 2%.
Le cause di questo fenomeno sono varie.
A questo risultato ha contribuito, senz’altro, la progressiva frammentazione del mercato del lavoro, che proponendo numerose varietà di forme, finisce per utilizzare – quantomeno in alcuni settori – il salario e la flessibilità come una leva di competizione alternativa alle innovazioni.
Un’altra causa, ormai da noi endemica, è la scarsa propensione alla crescita della produttività, cosa questa che non permette in molti casi una distribuzione della ricchezza realmente efficace. Il mercato del lavoro, però, in questo modo finisce per avvilupparsi in un circolo vizioso. Molti economisti, infatti, hanno dimostrato che l’introduzione di un salario minimo non produce effetti negativi. Il Nobel per l’economia David Card, con i suoi studi, ha dimostrato, anzi, gli effetti positivi prodotti sulla occupazione negli Stati Uniti. Altri studi dimostrano che sovente gli stessi aumenti di salario conducono ad aumenti di produttività, poiché spingono le produzioni verso attività che si caratterizzano per maggiore innovazione, a forte contenuto tecnologico, e finiscono per indirizzare l’attività economica verso investimenti a più alta intensità di innovazione, con il risultato complessivo di maggiori incrementi di produttività, di maggiore soddisfazione e benessere per i medesimi lavoratori e di una più efficiente allocazione.
Vi è poi un’altra causa endogena al nostro sistema della contrattazione collettiva da tenere presente. Se nel passato i contratti collettivi sono stati sinonimo di aumenti salariali e più efficace distribuzione, va considerato che negli ultimi decenni hanno progressivamente smesso di svolgere questo ruolo in molteplici settori di attività. In particolare, la parcellizzazione dei contratti e la scarsa rappresentatività sindacali in alcuni settori hanno portato all’aumento continuo dei cosiddetti “contratti pirata” e al fenomeno dei ribassi salariali.
Basti considerare che presso l’Inps e il Cnel risultano oggi registrati quasi mille contratti collettivi: più esattamente 985. La stragrande maggioranza di essi risultano sottoscritti da associazioni di modesta o pressoché nulla rappresentatività. Tutto questo è pienamente legittimo stante l’inattuazione della previsione contenuta nell’art. 39 Cost. A tutt’oggi i sindacati sono associazioni non riconosciute di diritto privato: possono costituirsi liberamente e svolgere liberamente le loro funzioni, senza requisiti minimi e senza vincoli di iscrizione a pubblici registri.
Ecco che il problema del salario minimo finisce per intrecciarsi con quello della rappresentanza sindacale.
Sono problemi che vanno affrontati con un approccio complementare, ma con forte determinazione, in modo da impedire ulteriore sofferenza ai 4,5 milioni di lavoratrici e lavoratori attualmente penalizzati.
Da un lato, una buona legge sulla rappresentanza sindacale torna utile a evitare la proliferazione di contratti pirata, attraverso la individuazione di contratti di riferimento per settori di attività.
Dall’altro lato, una legge che indichi un salario minimo legale può giovare a indicare la soglia minima per un’esistenza libera e dignitosa, lasciando che i reciproci poteri contrattuali delle parti si esplichino su molti altri aspetti regolatorii del rapporto di lavoro.
Quel che è avvenuto altrove può offrirci utili insegnamenti. In Germania, dove pure esiste una forte tradizione sindacale, questo approccio regolativo combinato, che contempla una contrattazione collettiva collegata al salario minimo legale, sta offrendo buona prova di sé.
Occorre una svolta: possiamo porre ordine all’attuale ginepraio della contrattazione collettiva operando una ripartizione per comparti, riconducendoli a differenti settori di attività. All’interno dei primi possiamo poi individuare i contratti collettivi che, sulla base della maggiore rappresentatività sul piano nazionale, svolgeranno funzioni di “guida” e che costituiranno, ai fini retributivi minimi, il quadro di riferimento.
Sia la sentenza della Corte Cost. n. 51/2015 sia la legge n. 338/1989 sia la direttiva dell’UE del 2020 (n. 682/2020) sui minimi salariali suggeriscono, peraltro, la strada del riferimento retributivo esterno.