di Saverio Pipitone – Seoul, fine agosto scorso. Accademici, ricercatori e attivisti, riunitesi al 22° Congresso Basic Income Earth Network (BIEN), sia in loco che on-line, hanno discusso idee ed esperienze del reddito universale nell’era delle crisi multiple fra mutamento climatico e trasformazione digitale.
“Il reddito di base nella realtà” è il motto delle quattro giornate di incontri e – come asserisce la copresidente congressuale Yong Hye-in nel discorso di benvenuto – «riflette la determinazione a farne una politica del presente e non solo un sogno per il futuro».
Uno degli interventi di apertura è dell’economista scozzese Annie Miller, autrice del libro “Basic Income: A Short Guide”. Racconta di quando nel 1986 prese parte al 1° Congresso BIEN in Belgio, organizzato dal collettivo Charles Fourier, e di come siano cambiate le cose: all’epoca 50 iscritti e una ventina di oratori nordeuropei, adesso 1.000 partecipanti e circa 150 relatori da tutto il mondo.
«Oggi siamo un movimento – afferma – con il ruolo estremamente importante di informare, coinvolgere e persuadere il grande pubblico e gli opinion leader, i policy maker e i politici, riguardo all’opportunità e alla fattibilità di un programma di reddito di base». Per lei è anche di fondamentale importanza l’adeguata definizione del reddito di base per evitare confusioni, contrasti e insidie. Consiglia di usare quella del sito istituzionale BIEN: un pagamento periodico in contanti erogato incondizionatamente a tutti su base individuale, senza verifica dei mezzi o requisiti di lavoro. «Funzionerà – prosegue – se sostenuto da una profonda compassione per l’umanità e le altre specie, non solo per la famiglia e gli amici, ma per il vicino e lo straniero, e persino per il nemico».
Dalle sessioni plenarie l’oratore Toru Yamamori, professore giapponese di filosofia economica, chiede se «un centesimo al mese costituisce un reddito di base», ragionando sulla soglia minima, per non correre il rischio di un livello monetario inadatto a coprire almeno i bisogni di sussistenza. Cita i coniugi inglesi Mabel e Dennis Milner che nel 1918, per risolvere i problemi sociali, proposero un bonus statale individuale e dicevano «sufficiente a mantenere la vita e la libertà».
Scott Santens di Washington, attivista e editore dell’hub di notizie Basic Income Today, nella sua relazione riepiloga diverse sperimentazioni degli ultimi anni negli Stati Uniti a sostegno di sanzatetto, donne incinte, giovani svantaggiati, transgender, disoccupati, ex carcerati, studenti, disabili, anziani, rifugiati, lavoratori e autonomi, con programmi variabili dai 3 mesi ai 5 anni ed erogazioni mensili dai 200 ai 1.200 dollari. Lo stesso Scott Santens ha percepito per qualche anno il reddito di base: «Ho imparato cosa significa provare un vero senso di sicurezza e quanta poca sicurezza avessi mai provato prima. Ho imparato che le persone sottovalutano quanto sia importante anche un piccolo reddito. Un paio di centinaia di dollari al mese potrebbero non sembrare molti, ma quando sai per certo che ci saranno, sai per certo che almeno non soffrirai la fame. Quella sensazione di non doversi mai preoccupare di trovare i soldi per il cibo non è affatto insignificante».
C’è Injung Han, percettore e membro del consiglio direttivo del Basic Income Korea Network. Parla di Seoul dove vive: «È una delle sei città più ricche al mondo in termini di PIL, ma non tutti sono contenti. La ricchezza è monopolizzata e la disuguaglianza si sta intensificando. Coloro che hanno perso la propria umanità nella competizione estrema per la sopravvivenza lamentano depressione e alienazione». Evidenzia i crescenti crimini casuali nei luoghi pubblici con un fenomeno chiamato in gergo coreano mudjima e represso con forza dallo Stato: ultimo attacco è del trentenne disoccupato Cho Seon che nella stazione metropolitana ha accoltellato degli sconosciuti; interrogato dalla polizia, ripeteva che aveva fatto del suo meglio per guadagnarsi da vivere, senza riuscirvi, era infelice e voleva rendere infelici gli altri. «Sono davvero demoni feroci? Sono completamente diversi da te?», domanda Injung Han che viene da un passato difficile e si ritiene un sopravvissuto fortunato grazie al reddito di base, «l’acqua potabile per la felicità».
Almaz Zelleke, scienziata politica newyorkese, nel considerare la crisi della cura sociale quale risultato del fondamentalismo di mercato che esclude tutti i rapporti privi di remunerazione, constata che «il reddito di base da solo non risolve le problematiche del capitalismo contemporaneo, ma consente forme di relazioni umane e garantisce al meglio a tutti i membri della società, anche a quelli non redditizi, i mezzi necessari per una vita dignitosa».
Jorge Pinto, ingegnere ambientale e filosofo sociale portoghese, avverte che la vita e il Pianeta, come li conosciamo, sono finiti, gli esseri umani e l’ecosfera sono ora vulnerabili e ciò implica fragilità. Precisa che bisogna «accettare la finitudine e preparare il futuro, garantendo la qualità della vita per le generazioni presenti e future». Pensa ad un nuovo patto tra umano, natura e tecnologia, con il contributo del reddito universale in termini di maggiore uguaglianza, sicurezza economica, conoscenza condivisa, protezione ecologica e partecipazione civica.
Nell’avvicendarsi dei convegni, studiosi di svariate discipline e nazionalità, relazionano ulteriori aspetti del reddito di base: per Jurgen De Wispelaere è un puzzle politico poiché nasce e muore per ragioni politiche, la sfida è renderlo invulnerabile alla politica con soluzioni e pianificazioni proattive a lungo termine; Won-Don Kang lo collega alla democrazia e alla conservazione dell’ecosistema come pilastri per ristrutturare società ed economia, mantenere pace e sostenibilità; Sam Whiting lo suggerisce per finanziare il lavoro culturale o creativo perché le arti rivelano i valori dei popoli e molti artisti abbandonano il talento per mancanza di risorse; per Min Geum è la risposta alla riduzione dei salari o scomparsa di manodopera a causa dell’Intelligenza Artificiale ed è preparatorio all’avvento della civiltà completamente automatizzata; Etienne Bertet, nell’indagare i dati conclusivi degli effetti dei progetti pilota, osserva aumenti di consumi primari, volontaria attività assistenziale e piccole imprese locali, miglioramenti delle condizioni salutari ed esistenziali; seguono tanti altri interventi nei link papers e video.
Unico relatore italiano è Matteo Pignocchi, avvocato e dottorando in diritto costituzionale all’Università di Macerata. Al Congresso espone la situazione italiana. L’ho contattato, abbiamo scambiato due chiacchiere e lui sostiene questo: «Il governo Meloni, che partiva da posizioni di destra sociale, con le sue misure sulla povertà ritorna ad una concezione del povero immeritevole e pigro, che sta sul divano, colpevolizzandolo. Deve andare a sudarsi la giornata e, se non ce la fa o trova dei lavori sottopagati e precari, non è un problema del sistema ma suo. È una narrazione anacronistica, tipica dell’Ottocento, mentre la nostra Costituzione e anche le idee del reddito universale dicono il contrario, cioè che la povertà non è una questione privata e nemmeno una colpa personale, la povertà è un problema pubblico e va affrontata con soluzioni pubbliche di redistribuzione della ricchezza. Oltretutto il lavoro sta cambiando a causa dell’automazione che consente la crescita economica anche senza l’apporto dei lavoratori, molti impieghi piano piano scompariranno, finendo per escludere socialmente una grande fetta di società che di fatto era inclusa attraverso il lavoro. Gli Stati, che l’hanno capito, stanno implementando tantissime sperimentazioni per il reddito di base. Impedirne lo sviluppo, come in Italia, significa accettare che una parte della popolazione va nel baratro e l’altra parte invece sopravvive».
Infine ci sono (ma non a Seoul) Tunin e Zvanin, operai tra industrie robotizzate e cassa integrazione. Mentre cenano guardano la Tv: c’è il sociologo Domenico De Masi che narra come nell’Atene di Pericle, 400 anni prima di Cristo, ogni cittadino libero aveva otto schiavi e questo permise agli uomini liberi di pensare soltanto allo studio, alle commedie, alla tragedia, alla poesia. Poi spiega che oggi abbiamo praticamente trentatrè schiavi ogni casalinga; frullatori, frigoriferi, lavastoviglie, non sono altro che schiavi meccanici e questo ci permetterebbe di vivere nuovamente come i greci. Zvanin: «Le macchine a lavorare e noi ad attività superiori, l’arte, la musica, la pittura». Tunin: «La classe operaia va a ballare, ma quando la moglie della fu classe operaia chiede i soldi per andare a comprare l’ossobuco, chi glieli dà?». Zvanin: «Agnelli! Perché il plusvalore prodotto dalle macchine che producono le macchine, il 50% se lo becca lui ma l’altro 50% ce lo deve dare a noi. Se lui non ci dà i soldi come facciamo noi a comprare le sue macchine, e così anche gli altri industriali. L’ha detto il professor De Masi e io ci credo fino all’ultima parola». [Tratto dal film Metalmeccanico e parrucchiera in un turbine di sesso e politica di Lina Wertmüller del 1996]
L’AUTORE
Saverio Pipitone – Giornalista pubblicista e redattore economico-finanziario. Autore di articoli di varie tematiche, dalla critica economico sociale alla storia, dall’ecologia al consumismo. Oltre a Pesticidi a tavola, ha scritto i libri Shock Shopping La malattia che ci consuma (Arianna Editrice) e Forno a Microonde? No Grazie (Macro Edizioni). Blog: saveriopipitone.blogspot.com