Di seguito l’articolo di Bernd Pickert, pubblicato su taz.de, tradotto da Stefano Porreca, che ringraziamo.
Il ministro della Giustizia Usa, Merrick Garland, ha dimestichezza con l’iniquità e l’ipocrisia politica. Le ha sperimentate entrambe sulla sua pelle. Garland fu l’uomo che nel marzo del 2016 l’allora presidente, Barack Obama, scelse per la Corte suprema degli Stati Uniti e la cui nomina fu bloccata dai repubblicani al Senato.
La loro argomentazione: a così poca distanza di tempo – otto mesi – da un’elezione è inopportuno conferire un incarico di così grande rilevanza. Una mossa, questa, iniqua e ipocrita dal momento che quattro anni più tardi, soltanto cinque settimane prima delle elezioni presidenziali del 2020, con una procedura d’urgenza Donald Trump nominò l’ultraconservatrice Amy Coney Barrett – e il partito repubblicano non ebbe nulla da obiettare.
In realtà, dunque, le fandonie dovrebbero costituire qualcosa che Merrick Garland non digerisce per principio. Eppure, nel caso del fondatore di Wikileaks, Julian Assange, che continua a essere detenuto in Gran Bretagna e a battersi contro la sua estradizione negli Stati Uniti, Garland non è affatto migliore. Con un tratto di penna, lui e il presidente Joe Biden potrebbero mettere la parola fine ai procedimenti e Assange tornerebbe in libertà – dopo sette anni trascorsi all’interno dell’ambasciata ecuadoriana a Londra e oltre tre anni nel carcere britannico. Ma non agiscono.
Trasmessi da Manning
Questa settimana le cinque media house internazionali New York Times, Guardian, Le Monde, El País e Spiegel hanno pubblicato un urgente appello al governo Usa affinché archivi il procedimento contro Assange e ne ritratti la richiesta di estradizione. Si tratta di quei cinque media che nel 2010 resero note una serie di rivelazioni in merito a crimini di guerra compiuti dagli Usa in Iraq e Afghanistan, basate sui documenti top secret in possesso di Wikileaks e trasmessi dalla whistleblowerin Chelsea Manning. All’appello non ha fatto seguito alcuna risposta, né da parte di Garland né di Biden.
Merrick Garland, nel frattempo, vuole mostrarsi come il difensore della libertà di stampa. Quest’anno ha elaborato nuove linee guida sulla condotta che le sue forze dell’ordine dovrebbero seguire con gli esponenti del settore mediatico. Il loro scopo è quello di garantire ai giornalisti e alle loro fonti riparo dalla persecuzione dello Stato. L’acquisizione delle informazioni da parte dei giornalisti va espressamente tutelata, e ciò comprende anche, a quanto si legge, «l’assunzione, il possesso o la pubblicazione di informazioni sul governo, incluse quelle secretate, così come la creazione di meccanismi per accedere alle stesse, compreso tramite fonti anonime o riservate».
L’assurda accusa di spionaggio
Il messaggio è chiaro e tondo. E include certamente quel che Julian Assange e Wikileaks fecero nel 2010 quando Chelsea passò loro i documenti riservati. Manning stessa, sia nel suo libro appena pubblicato che in svariate interviste, ha ribadito di non essere stata istruita nel furto di dati né da Assange né da altri collaboratori di Wikileaks, ma di aver agito di propria iniziativa. In un primo momento tentò perfino di consegnare il materiale direttamente a uno dei grandi media statunitensi. La già assurda accusa di «spionaggio» – gli Usa vogliono incriminare Assange per questo reato dal 2017 – è dunque priva di qualsiasi fondamento.
I documenti trasmessi da Manning furono pubblicati durante il governo Obama, e giustamente quest’ultimo all’epoca considerò che, se avesse perseguito Assange, logicamente avrebbe dovuto procedere anche nei confronti di tutti quei media che resero noto il materiale. Ipotesi scartata.
Ciò, tuttavia, non impedì alle autorità statunitensi di continuare a raccogliere prove a carico di Assange e finanche di spiarlo all’interno dell’ambasciata dell’Ecuador a Londra. Solo quando nel 2019 gli fu revocato l’asilo, fu arrestato dalla polizia britannica e venne incarcerato per il reato minore di violazione delle condizioni di libertà su cauzione, l’amministrazione Trump si mosse con grande risolutezza – e piovve un capo d’accusa dopo l’altro.
Nel frattempo, politicamente Trump avrebbe avuto tutte le ragioni per essere grato a Wikileaks: la pubblicazione delle mail che la Russia hackerò dal quartier generale dei democratici aveva senz’altro danneggiato la sua avversaria, Hillary Clinton, nella campagna elettorale del 2016. Tuttavia, da un lato Trump non desiderava tornare a dare risalto a questo riferimento agli aiuti elettorali della Russia, dall’altro era piuttosto irritato con quanti lasciavano continuamente trapelare informazioni riservate dalla Casa Bianca. Il tutto sfociò in accuse sempre più aspre contro Assange.
Il perché la nuova amministrazione non abbia ritrattato tutte queste questioni, rimane un segreto di Joe Biden e Merrick Garland. Dal 2021 il Congresso degli Stati Uniti sta dibattendo l’International Press Freedom, volto a fornire appoggio e protezione negli Usa ai giornalisti minacciati di tutto il mondo.
Tutto l’Occidente è scandalizzato per la soppressione delle libertà di opinione e di stampa in Russia – e Assange seguita a essere rinchiuso in prigione.
Se il governo Biden intende riguadagnare credibilità su questi temi, occorre che agisca una volta per tutte a lasci cadere l’accusa contro Assange. O più esattamente: faccia finalmente processare coloro i cui crimini di guerra sono stati resi noti nei documenti pubblicati da Wikileaks. Quanti, per difendere i valori democratici, da ogni parte del mondo – giustamente! – invocano solidarietà all’Ucraina attaccata dalla Russia, dovrebbero mettere ordine anche nelle loro faccende.