di Marco Improta – L’Italia è uno dei paesi dell’Europa occidentale con il livello di instabilità dei governi più alto. Dalla nascita della Repubblica, la durata dei governi italiani si è attestata in media ad un solo anno di longevità. Si sono così alternati 67 governi. In Germania i governi durano in media tre anni e i cittadini tedeschi hanno avuto 42 esecutivi in meno. Anche paesi mediterranei registrano una stabilità maggiore: i governi spagnoli durano mediamente due anni e mezzo, quelli portoghesi poco meno di due anni. Naturalmente, la capacità di durare nel tempo non è una variabile sufficiente per spiegare il buon governo. Ma è senz’altro una condizione necessaria perché il buon governo possa esserci.
Le conseguenze derivanti da questa patologia italiana riguardano molteplici aspetti della qualità della nostra democrazia. Governi instabili non possono effettuare una efficace programmazione economica. Inoltre, i Ministri e il Presidente del Consiglio faticano a imporsi nei rapporti internazionali, basti pensare che dal 2012 l’ex cancelliera Angela Merkel si è interfacciata con ben cinque diversi inquilini di Palazzo Chigi. Non solo: governi instabili registrano una limitata accountability, cioè la capacità di rendicontare le proprie azioni ai cittadini, perché le proposte avanzate in campagna elettorale necessitano di tempo perché siano correttamente trasformate in politiche pubbliche. Con un frenetico turnover governativo e scarsa accountability, il livello di disaffezione dei cittadini nei confronti delle istituzioni cresce e la bassa partecipazione elettorale è solo uno dei segnali del malessere generale.
Il problema dell’instabilità governativa in Italia non è un segreto per nessuno. Conosciamo questo deficit e le conseguenze sulla funzionalità delle democrazie. Dunque, sorprende che questo problema, molto pronunciato sin dai primi anni della Repubblica, non sia stato affrontato e posto come obiettivo primario delle riforme istituzionali italiane. Occorre pensare a possibili rimedi.
Il primo rimedio è il più efficace, ma non si introduce con una riforma istituzionale perché spontaneo: la formazione di una cultura politica. L’Italia è un paese con alcune caratteristiche tipiche della democrazia consensuale, un sistema che secondo il politologo Arend Lijphart prevede la diffusione del potere nelle mani di più attori. I governi di coalizione sono tipici di questo sistema e questa configurazione è la regola nel caso italiano. Le coalizioni non sono intrinsecamente instabili, ma i partiti italiani non hanno la cultura della cooperazione che osserviamo in Germania o in Svizzera. Gli esecutivi tedeschi, ma soprattutto quelli elvetici, sono multi-partitici. Ma anche molto stabili. I conflitti interni alle coalizioni non sfociano in crisi di governo frequenti, ma in soluzioni condivise.
In mancanza di una cultura politica di questo tipo, gli unici rimedi possono essere istituzionali. Negli anni, i progetti riformatori italiani si sono concentrati soprattutto sulle leggi elettorali. Gli studi politologici suggeriscono che per favorire la sopravvivenza degli esecutivi bisogna ridurre la frammentazione: servono dunque meno partiti, per ridurre i conflitti. Come raggiungere questo obiettivo con regole elettorali? Creando disproporzionalità. Soglie di accesso più alte e premi di maggioranza, ad esempio. Il problema è che le leggi elettorali non possono solo influenzare (indirettamente) la stabilità degli esecutivi ma influenzano, in maniera più diretta, le strategie dei partiti modificandone incentivi e disincentivi, lasciando spazio a divergenze che impediscono una visione di sistema.
I conflitti che spesso favoriscono le crisi di governo scaturiscono anche dal fenomeno del party switching, ovvero dal cambio di casacca. Il politologo Giovanni Sartori definiva questo fenomeno con l’espressione “bestia italica”. I cambi di casacca, più frequenti a ridosso della fine della legislatura, contribuiscono ad aumentare la complessità in parlamento. I cittadini inoltre assistono al proliferare di nuovi gruppi senza poter incidere. I nuovi gruppi spesso sono numericamente esigui e poco rappresentativi nel paese, ma riescono comunque a influenzare la condotta del governo. Sartori, in merito, parlava di “potenziale di ricatto”. L’art. 67 della nostra Costituzione vieta il mandato imperativo. Si tratta di un principio condivisibile, ma pensato nel contesto di partiti (troppo) forti e invasivi. Oggi sono deboli. Occorre dunque distinguere tra defezioni motivate da principi e defezioni motivate da interessi che hanno poco a che fare con la libertà di mandato. Discussioni sull’introduzione di vincoli temporali e numerici sulla possibilità di defezione sono già avviate in altri paesi, come Israele. In alcuni sistemi i parlamentari non possono lasciare il gruppo di appartenenza a ridosso di nuove elezioni e senza aver raggiunto il consenso di altri membri del gruppo. Bisognerebbe affrontare il problema anche in Italia in maniera non ideologica.
La sfiducia costruttiva è il rimedio per l’instabilità dei governi più percorribile, rebus sic stantibus. Si tratta di uno strumento di razionalizzazione del parlamentarismo, volto cioè a correggere elementi disfunzionali dei sistemi parlamentari come quello italiano. È presente in Germania, Spagna, Belgio e Israele. La funzione di stabilizzazione risiede nell’impossibilità di sfiduciare un governo, e quindi portarlo alla caduta, senza accordare la fiducia ad un nuovo esecutivo pronto a subentrargli. In Spagna, ad esempio, la mozione di sfiducia è presentata da un primo firmatario. Se la mozione è approvata, il primo firmatario ha la responsabilità di formare un governo. Chi crea la crisi di governo, dunque, deve anche trovare una soluzione. Sono ammesse solo crisi di governo alla luce, quelle al buio sono limitate. Inoltre, la sfiducia costruttiva non produce effetti solo nella sua applicazione, ma anche nella sua stessa presenza nell’ordinamento, in funzione di deterrenza. I paesi che hanno adottato questo strumento hanno guadagnato stabilità. L’introduzione della sfiducia costruttiva sarebbe un primo tentativo per risolvere l’instabilità governativa anche in Italia. Gli studi sul tema nell’ambito della scienza politica mostrano segnali incoraggianti sull’efficacia di questo strumento.
L’AUTORE
Marco Improta è dottorando di ricerca in Politics presso il Dipartimento di Scienze Politiche della LUISS e membro del Centro Italiano Studi Elettorali. Si occupa in particolare di instabilità dei governi in Italia e nelle democrazie occidentali studiandone le cause, le conseguenze e le possibili soluzioni.