di Emanuele Isonio – “20mila ettari, secondo le previsioni più ottimistiche. Significa che 200 milioni di metri quadrati di terreno sono stati completamente distrutti. Ci vorranno parecchi decenni per ripristinare la condizione del suolo e la sua fertilità, ristabilire gli equilibri ecosistemici e la complessità della macchia mediterranea. L’incendio di queste ore ha mostrato, ancora una volta, come troppe superfici sono state abbandonate dai proprietari, che non trovano remunerazione adeguata per occuparsi delle proprietà. Invece, per contrastare gli incendi, si deve riscoprire la cura del territorio”.
L’analisi, a metà tra la denuncia e la proposta per il futuro è contenuta in una nota del CONAF (Consiglio Nazionale Dottori Agronomi e Forestali), diramata a seguito delle drammatiche immagini degli incendi che hanno devastato la provincia sarda di Oristano. Solo l’ultimo di una scia di episodi che mostra un preoccupante aumento, sia in Italia sia, più in generale, nel bacino del Mediterraneo.
Ogni anno in fumo un’area grande quattro volte Roma
I numeri li aveva raccolti, già 12 mesi fa, un rapporto realizzato da Greenpeace insieme al Sisef, Società italiana di selvicoltura ed ecologia forestale: tra il 2000 e il 2017, nel bacino del Mediterraneo, è stato interessato da incendi un territorio grande tre volte e mezzo l’intera superficie della Sardegna: 8,5 milioni di ettari. Una media di 480mila ettari – pari a quasi quattro volte l’area di Roma – bruciati ogni anno. Le perdite economiche ammontano a 54 miliardi di euro.
Solo in Italia, nei 71 giorni compresi tra metà giugno e fine agosto 2020, Coldiretti aveva conteggiato 500 roghi tra Emilia Romagna, Umbria, Lazio, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna.
Superare l’intervento emergenziale
Eppure, anno dopo anno, le cronache annotano incendi senza però registrare al contempo nessun cambio di approccio. Oltre l’emergenza, niente. Con buona pace degli effetti a lungo termine che il fenomeno produce in termini di danni al suolo e contaminazione delle risorse idriche. “Come dottori forestali – osserva Corrado Fenu, consigliere CONAF – vediamo che lo sforzo di gran lunga maggiore è lasciato all’intervento. Poche cose sono state fatte per prevenire: chi guarda al futuro, invece, deve capire che è necessario ribilanciare l’impegno, lavorando molto sulla prevenzione e meno sull’intervento emergenziale che lascia strascichi per decenni”. Anche tenendo a mente un altro dato: in Europa, il 2% degli incendi è responsabile dell’80% delle aree bruciate. Grandi incendi boschivi caratterizzati per la loro notevole velocità e capacità di propagazione.
Dietro a questo fenomeno, ci sono almeno tre fattori da considerare: “meteorologia, vegetazione e vulnerabilità del territorio” sottolinea Giorgio Vacchiano, ricercatore in Scienze forestali all’università di Milano. Tutti ambiti nei quali le possibilità di intervento sono enormi.
In Italia aumento temperatura doppio rispetto alla media
Sulla meteorologia, il legame con gli incendi è abbastanza intuitivo anche per i non addetti ai lavori. Fa più caldo, il rischio roghi è maggiore. Non solo: “la Terra – spiega Vacchiano – sta sperimentando un livello di anidride carbonica come non avveniva da almeno 3 milioni di anni. Questo sta accelerando i cambiamenti climatici causati dall’uomo”. Per di più, in Italia l’aumento di temperatura è doppio rispetto alla media globale. “L’anticiclone africano – prosegue Vacchiano – ha sostituito quello delle Azzorre su tutta la penisola e le nostre isole. E la corrente a getto rallenta, facendo rimanere i sistemi secchi e quelli piovosi più a lungo sullo stesso territorio, come abbiamo visto il mese scorso in Canada e in Germania”. La conseguenza? Ondate di calore e siccità più frequenti, intense, prolungate. “La vegetazione perde umidità, si secca e brucia più facilmente e con fiamme più intense, che consumano anche il suolo”.
Più materiale organico a terra, più combustibile a disposizione
A proposito di vegetazione, anch’essa ha un ruolo da non sottovalutare. “Non è un equazione difficile” commenta Vacchiano. “Più materiale organico equivale a più combustibile disponibile. Ed è soprattutto la vegetazione morta a fare da benzina, così come tutta quella priva di un contenuto d’acqua sufficiente a tamponare il calore necessario a innescare la combustione”. Qui l’analisi del docente dell’università di Milano coincide con quanto da tempo affermano molte associazioni di categoria, oltre che le sigle ambientaliste. “Rimboschimenti mai diradati, boschi che accumulano lettiera e rami secchi, alberi colpiti dalla siccità sono la ricetta per incendi di vasta portata, in cui il fuoco supera presto le soglie di intensità che permettono alle squadre antincendio di lavorare in sicurezza. Qui, la sfida è gestire il territorio in modo da ridurre i rischi, senza perdere potenziale di mitigazione al cambiamento climatico e assorbimento di carbonio”.
Analogamente, già a seguito dei tanti incendi 2020, Coldiretti ricordava come “nella maggioranza dei boschi italiani non si trova più la presenza di un agricoltore che possa gestirli in un Paese come l’Italia dove più di 1/3 della superficie nazionale è coperta da boschi per un totale di 10,9 milioni di ettari. La corretta manutenzione aiuta a tenere pulito il bosco e ad evitare il rapido propagarsi delle fiamme in caso di incendi. Per difendere il bosco italiano occorre creare le condizioni – rileva Coldiretti – affinché si contrasti l’allontanamento dalle campagne e si valorizzino quelle funzioni di sorveglianza, manutenzione e gestione del territorio svolte dagli imprenditori agricoli”.
Negli anni, cresce la percentuale di incendi boschivi
In effetti, nel corso degli anni gli incendi sono sempre più “boschivi”. “La percentuale di superficie bruciata annua in aree boschive sul totale della superficie percorsa da incendi in tutti i tipi di vegetazione (bosco, pascoli, aree agricole) è aumentata in modo lineare dalla fine degli anni ’70 al 2018” spiega nel rapporto Greenpeace-SISEF, Davide Ascoli, ricercatore in Pianificazione forestale e selvicoltura all’università di Torino. “Questo indicatore – prosegue Ascoli – ha raggiunto il suo valore più alto nella stagione incendi del 2017, dove il 70% della superficie percorsa da incendi ha interessato aree forestali. Questo è un cambiamento importante del regime di incendi, risultato di processi territoriali e socio-economici che hanno favorito l’espansione delle foreste in aree pascolive e agricole, con importanti conseguenze sul comportamento del fuoco e la capacità dei sistemi antincendio regionali di governare il fenomeno”.
Riflessioni che aprono il capitolo della vulnerabilità del nostro territorio. “Il tema è reso ancora più attuale – osserva Vacchiano – dal cambiamento climatico che espone ai pericoli naturali aree che fino a ieri potevano ritenersi sicure. Come per le alluvioni, i luoghi dove costruire una casa o un campeggio possono fare la differenza tra la vita e la morte. E dove la sicurezza è prioritaria, l’aumento del pericolo ci costringe a prendere misure più drastiche, come un controllo più intenso della vegetazione intorno a case, paesi e infrastrutture. A chi gestisce il territorio la scelta se considerarle un costo o un investimento” conclude il docente.