di Giorgio Rinaldi – A proposito di trattati, le persone più ciniche direbbero subito che sono fatti per essere violati, oppure che vengono stipulati solo se si è certi che se ne può avere un certo vantaggio, anche se a danno di altri.
L’abilità dei contraenti sta nell’affidarsi a persone qualificate che sanno cosa scrivere e riescono anche a leggere oltre le righe.
Molti trattati europei hanno visto la partecipazione (o scarsa partecipazione) di delegazioni italiane affette da gravi miopie e, per questo, ne abbiamo pagato, e ne stiamo pagando, prezzi altissimi.
Il famoso trattato di Dublino, cioè quello che assegna ai Paesi di primo arrivo (quindi Italia, Grecia, Spagna, Portogallo e Malta) la gestione dei migranti provenienti dal sud del mondo, è quello che, a furia di sentirne in radio e tv e leggerne sui giornali, almeno per sommi capi conosciamo.
Di altri ne abbiamo sentito parlare vagamente, ma col tempo ricordiamo appena la località che ha dato il nome al trattato.
Uno di questi è il trattato di Maastricht del 1992.
Prima di analizzarne solo una modesta parte dei contenuti, vale la pena sottolineare che i trattati economici dovrebbero seguire i trattati politici e non precederli, perché il tal caso si presteranno sempre (è quel che accade nell’Unione Europea) a privilegiare gli interessi particolari degli Stati membri, al di là di una visione politica unitaria.
Ma, la bellicosità dei Paesi europei (nel secolo scorso si è vista una guerra dopo l’altra, per non parlare dei tempi a precedere) ha comportato un’accelerazione degli accordi interstatali per scongiurare altri conflitti.
A Maastricht, l’omonimo trattato, quando si trattò di disciplinare l’attività di spesa dei contraenti, non previde alcuna soglia all’indebitamento di ciascuno Stato verso l’estero, mentre fu posta la soglia del 3% rispetto al Pil per quanto all’indebitamento pubblico di ogni Stato membro.
In questo modo, gli acuti estensori pensarono che contenendo l’indebitamento pubblico si sarebbe potuto controllare il ruolo di ogni Stato firmatario all’interno dell’Unione.
E’ facile intuire, infatti, che la soglia di indebitamento costringe lo Stato a muoversi in ambiti ristretti di espansione che a lungo ne limitano lo sviluppo economico e sociale.
Poichè eventuali esuberi devono essere previamente concordati ed autorizzati dall’U.E., ecco che la sovranità dello Stato viene ad essere frustrata, nonostante la carenza di un accordo politico-istituzionale di governo dell’entità sovranazionale.
L’Italia, per i suoi alti rapporti debito/pil e deficit/pil, diventò così, insieme ad altri Stati con le medesime caratteristiche debitorie, uno dei Paesi il cui ruolo dello Stato veniva compresso.
Quelli con i rapporti più bassi venivano, per contro, favoriti rispetto agli altri.
I correttivi intervenuti successivamente non sono riusciti a scalfire gli squilibri che si erano oramai cristallizzati.
La logica commerciale che era conseguente alle scelte del trattato di Maastricht ha favorito la Germania la cui competitività, negli anni, è diventata enorme.
In questo quadro, la Germania, avendo un più alto PIL che le ha consentito di avere un maggiore “surplus” delle cosiddette “partite correnti”, ha potuto prestare ai Paesi più deboli (in specie, Portogallo, Spagna, Irlanda, Grecia e Italia) più soldi di quanto questi, a causa dei limiti europei imposti sulle soglie di deficit e surplus del PIL (-4% e +6%), avrebbero potuto ottenerne.
Così, i tedeschi hanno potuto mettere una seria ipoteca sui beni di quei Paesi che già si sapeva che non avrebbero potuto restituire i prestiti e mettere le mani su preziose infrastrutture spendendo il minimo.
La Grecia nel 2015, non a caso, ha dovuto svendere 14 porti…
I francesi e i tedeschi, confidando sulla incongruenza dei trattati e sulla loro supremazia politica, hanno incentivato le loro banche a prestare soldi alle banche greche e spagnole che, in tal modo, hanno sviluppato a dismisura il credito al consumo a greci e spagnoli per l’acquisto a rate vantaggiose di prodotti franco-tedeschi, con grande soddisfazione, ovviamente, delle industrie di questi Paesi.
In tal modo, da un lato le banche greche e spagnole pagavano fior di interessi alle banche francesi e tedesche, dall’altro le industrie nazionali di questo novello “Asse” facevano profitti giganteschi con le enormi vendite di prodotti ai consumatori greci e spagnoli.
In sintesi, con questo meccanismo le economie francesi e tedesche sono cresciute ulteriormente grazie agli introiti finanziari ed ai guadagni delle loro industrie, che hanno consentito così maggiori investimenti ed occupazione.
Le industrie degli altri Paesi, invece, che già soffrivano per una crisi di cui non si vedeva fine e per i consumi in continua depressione, hanno dovuto sopportare anche la feroce concorrenza soprattutto delle industrie tedesche.
Si pensi alla possibilità che ha avuto un cittadino greco di acquistare un’autovettura tedesca ad un prezzo più basso di quello di una qualsiasi altra prodotta altrove e con un pagamento rateale estremamente favorevole, che nessun altro avrebbe potuto concedere: così la crescita economica del colosso germanico è diventata inarrestabile!
Con la crisi del 2011, le banche franco-tedesche si sono trovate nella impossibilità di esigere i loro crediti, in special modo dai greci e spagnoli, sicché fu introdotto il fondo “salva Stati” (tra l’altro, su proposta italiana), che però si poi è tradotto in un fondo salva banche francesi e tedesche.
All’Italia fu imposto, oltre ad una riduzione del debito (tra l’altro con la riforma delle pensioni, cd. legge Fornero), anche un indebitamento per 60 miliardi, pari al 3,7% del PIL, escluso dal Patto di stabilità, che servì a ripianare i crediti delle banche dell’Asse, in barba alle limitazioni invece sussistenti per gli investimenti interni.
Anche gli altri Paesi, in virtù dell’esclusione dei finanziamenti dal Patto di stabilità, hanno dovuto salvare le banche greche e spagnole che così hanno potuto pagare i debiti che avevano con le banche francesi e tedesche: in poche parole, i crediti che le banche franco-tedesche avevano nei confronti di quelle greche e spagnole sono stati trasferiti ai cittadini europei che, verosimilmente, non li vedranno mai saldati.
A sugello dell’egemonia della Germania in Europa, le banche tedesche iniziarono a vendere i titoli di Stato greci, spagnoli e italiani, che venivano acquistati prima dalle banche di questi Paesi, con i soldi presi a prestito dalla BCE, e poi riacquistati dalle rispettive banche centrali, sempre con soldi presi a prestito dalla BCE.
Questi titoli svalutati, per un verso hanno fatto aumentare lo spread (cioè il differenziale di rendimento con i bund, i titoli di Stato tedeschi), per un altro, in conseguenza del meccanismo previsto dal sistema “target 2” (piattaforma gestita dalla BCE utilizzata dalle banche per i pagamenti in entrata ed in uscita con altre banche, amministrazioni pubbliche etc.), hanno dato corso ad un aumento vertiginoso del debito spagnolo per 381 miliardi di euro e di quello italiano per 442 miliardi di euro, contro un credito della Banca Centrale Tedesca di 923 miliardi di euro.
Ora, da una parte la Germania, forte del credito che vanta, continua a dettare le regole del gioco in Europa, dall’altra ha il fondato timore che un’uscita unilaterale dall’Unione di uno o entrambi i Paesi, con il cambio da parte di questi della moneta europea in moneta nazionale (che verrebbe per convenienza immediatamente svalutata), comporterebbe una drastica riduzione dell’immane credito accumulato.
Se è vero, come è vero, che la Germania è una grande potenza economica che si traduce in una grande potenza politica, di cui fa uso e abuso, è anche vero che gli altri, in prima fila l’Italia, si sono comportati come nanerottoli che le hanno permesso di fare il bello e il cattivo tempo in Europa.
Forse, è giunto il momento di cominciare a fare dei conti diversi e creare un’Europa che non sia al traino di alcuno e che non sia schiava né dei francesi, né dei tedeschi, né degli ultimi arrivati che hanno imparato l’arte della democrazia solo ieri l’altro.
L’AUTORE
Giorgio Rinaldi, avvocato, giornalista e diplomatico. Vive e lavora a Bologna.