di Niccolò Morelli – In Italia la povertà è una piaga sociale. Lo è ancora di più se si prende atto del fatto che centinaia di migliaia di poveri versano in questa condizione pur lavorando. Un Paese che vanta una delle economie più grandi d’Europa ha il dovere di impedire con qualsiasi mezzo che centinaia di migliaia di lavoratori siano costretti a sbarcare il lunario con paghe da fame. Infatti, mentre tutti gli altri Paesi europei si muovono inevitabilmente verso una direzione che cerca di garantire una retribuzione equa e dignitosa per tutti i lavoratori, il nostro Paese rimane fermo e intrappolato in una mentalità arretrata e conservatrice che sembra ignorare le sofferenze quotidiane di un esercito di lavoratori sfruttati come carne da macello. Oltre al danno, la beffa. Nonostante i “working poor” (cioè coloro che pur lavorando rimangono al di sotto della soglia di povertà) aumentino di giorno in giorno, il governo di destra-centro ha deciso di smantellare anche l’unico meccanismo capace di fronteggiare la povertà per coloro che un lavoro non ce l’hanno (ma anche e sempre di più per coloro che ce l’hanno e non riescono comunque a far fronte alle spese quotidiane) e cioè il Reddito di Cittadinanza. Senza un solido meccanismo di welfare come il RDC e con la piaga del working poor sempre più dilagante, la crisi della povertà in Italia si trasformerà presto in un’emorragia incontrollabile. Eppure, nonostante questo quadro drammatico, l’Italia continua ad opporsi all’introduzione di uno strumento che potrebbe finalmente ridare dignità a chi si impegna duramente ma è costretto a lottare con salari da fame.
In un Paese civile, la questione del salario minimo non dovrebbe essere oggetto di dibattito, ma un imperativo morale per una società che si proclama moderna ed evoluta. Il salario minimo, nei fatti, esiste in 21 dei 27 paesi dell’Unione Europea. La Germania addirittura, notoriamente rigorosa dal punto di vista economico, lo ha appena potenziato (insieme al proprio reddito di cittadinanza) portandolo da 9 a 12 euro l’ora.
In Italia ben quattro milioni e mezzo di persone vengono pagate meno di 9 euro l’ora, mentre due milioni e mezzo di lavoratori ricevono persino meno di 8 euro l’ora e circa 400 mila persone hanno salari così bassi, come detto prima, da doverli integrare col Reddito di cittadinanza. In alcuni casi addirittura, grazie a contratti pirata e ad altri che non vengono rinnovati da anni, ci sono lavori che garantiscono anche meno di 5 euro l’ora. Un rapporto del 2022, redatto da un comitato operante presso il Ministero del Lavoro, ha rivelato un dato sconcertante: circa un quarto dei dipendenti italiani guadagna meno del 60% della retribuzione mediana. Questo significa che circa un decimo della popolazione vive in condizioni di indigenza all’interno di nuclei familiari con redditi netti inferiori al 60% della mediana.
Questa colpevolissima controtendenza rispetto a tutti gli altri Paesi europei diventa sempre più accentuata se si pensa che mentre tutto intorno a noi gli stipendi aumentano, nel nostro paese l’unica cosa che aumenta è il costo della vita. Carburanti di ogni tipo, generi alimentari primari, bollo auto, canone Rai, bollette della luce, dell’acqua, del gas. L’unica cosa che non aumenta, appunto, ma che anzi diminuisce sono gli stipendi. Il nostro Paese infatti, come si vede dalla tabella sottostante, detiene un altro tristissimo primato: siamo infatti l’unico Paese in cui i salari, dal 1990 ad oggi, anziché aumentare e adeguarsi al costo della vita sono diminuiti, con l’ovvia conseguenza di aver generato una massa sempre crescente di nuovi poveri. Un nuovo esercito industriale di riserva.
Come se non bastasse, nel mese di ottobre 2022, l’Unione Europea ha emanato una direttiva che stabilisce che qualora il tasso di copertura della contrattazione collettiva scenda al di sotto dell’80%, ogni Stato dovrà garantire condizioni favorevoli per promuovere la contrattazione collettiva. Tra i 21 Paesi dell’Unione Europea che hanno adottato il salario minimo, si osserva una notevole variazione: dalla Bulgaria con il limite più basso di 332,34 euro, fino al Lussemburgo che presenta il tetto più elevato di 2.256,95 euro, seguito da Germania e Irlanda. Al di fuori dell’Europa, negli Stati Uniti il salario minimo è fissato a 1.109,54 euro, mentre nel Regno Unito si attesta a 1.583,31 euro. È importante sottolineare che la normativa europea non determina direttamente le cifre del salario minimo, ma introduce specifiche modalità di indicizzazione, revisione e variazione che si applicano in maniera uniforme a tutti i Paesi.
Secondo le disposizioni dell’Unione Europea, ogni Paese membro è tenuto a stabilire il salario minimo al 60% del salario mediano lordo e al 50% del salario medio lordo. Tuttavia, poiché tali valori possono essere soggetti a cambiamenti in base a diversi fattori, l’Unione Europea monitora regolarmente il processo di adeguamento, al fine di adattare il salario minimo alle mutevoli condizioni economiche.
Il buon vecchio “ce lo chiede l’Europa” evidentemente ha perso appeal.
La verità è che, come cittadini prima ancora che come Paese, non possiamo assolutamente permettere che la condizione di sfruttamento e umiliazione diventi la norma. Il lavoro povero, così come la povertà stessa, non possono e non potranno mai essere normalizzati. Ogni individuo merita una vita dignitosa, e il salario minimo è un passo fondamentale per garantire a milioni di lavoratori italiani un reddito equo e sufficiente per sostenere se stessi e le proprie famiglie.
È ora di porre fine alle ingiustizie e alle disuguaglianze che persistono nel mondo del lavoro. È arrivato il momento di mettere in discussione un sistema che privilegia il profitto a discapito della dignità umana. Dobbiamo esigere il cambiamento e spingere per l’adozione di politiche che pongano al centro il benessere delle persone, non solo degli interessi economici di pochi.
E’ già tardi, il momento è ora.
L’AUTORE
Niccolò Morelli, classe 1993, nasce ad Empoli ma vive tra le colline toscane di Vinci, il paese che dette i natali al genio di Leonardo. Nel 2018 si laurea in Scienze Politiche all’Università di Firenze e due anni dopo consegue il diploma di Master in Scienze del lavoro, frequentato per metà all’Université catholique de Louvain in Belgio, con una tesi dal titolo “Digitalizzazione e robotizzazione: verso un futuro senza lavoro?”.