Ogni giorno usiamo smartphone, computer, auto elettriche, oggetti intelligenti. Tutti questi dispositivi funzionano grazie a piccoli componenti chiamati microchip, dei circuiti minuscoli incollati su una piastrina di silicio. Per costruirli, servono processi industriali molto complessi, che usano tantissime sostanze chimiche e consumano moltissima energia. Il risultato? Un impatto sull’ambiente altissimo, secondo le stime, la produzione di microchip nel mondo genera ogni anno tra 360 e 600 milioni di tonnellate di CO₂. Uno dei passaggi fondamentali per costruire i microchip si chiama litografia; serve per disegnare, su scala minuscola, i percorsi che l’elettricità dovrà seguire dentro al chip. È un po’ come stampare le strade di una città in miniatura, per farlo, si usano delle “resine”, una specie di pellicola sottile e sensibile alla luce o a fasci di elettroni. Quasi tutte queste resine, però, sono fatte con derivati del petrolio e contengono sostanze tossiche per l’ambiente e per la salute.
Per ridurre l’inquinamento e prepararsi a un futuro con meno petrolio, da anni i ricercatori cercano soluzioni più pulite. Alcuni esempi interessanti sono ad esempio le proteine del bianco d’uovo, che possono essere trasformate in film sottili per la litografia; fibra di seta, un’altra sostanza naturale che ha mostrato risultati promettenti, anche se è costosa da produrre; amido di mais, usato in altri settori come la stampa 3D per produrre materiali biodegradabili; oppure le alghe, studiate per ottenere polimeri naturali alternativi alle plastiche tradizionali.
Tra le soluzioni più promettenti c’è il chitosano, una sostanza naturale ricavata dai gusci di gamberi, granchi e seppie, oppure da alcuni funghi. Si ottiene a partire dalla chitina, un materiale molto comune in natura, secondo solo alla cellulosa per abbondanza. È già usato in altri campi, per esempio in cosmetici, medicinali, fertilizzanti, fogli per alimenti e persino in tessuti antibatterici.
Nel mondo dell’elettronica, il chitosano ha un vantaggio enorme, si può stendere su una superficie come una pellicola sottile e usare al posto delle resine chimiche. Quando viene colpito dalla luce o da un fascio di elettroni, cambia struttura e diventa solubile solo nelle zone illuminate, come se si stesse sviluppando una vecchia fotografia. In questo modo si possono creare dei disegni piccolissimi, necessari per costruire i circuiti dei chip. In laboratorio, il chitosano ha già dimostrato di funzionare molto bene. In ambienti controllati, ha raggiunto livelli di precisione quasi uguali alle resine tradizionali, riuscendo a realizzare motivi più piccoli di 50 nanometri, cioè cinquanta miliardesimi di metro. Non solo, secondo gli studi, l’uso del chitosano potrebbe ridurre del 50% l’impatto ambientale di questa fase della produzione.
Il chitosano è biodegradabile, non tossico, e viene da scarti alimentari. È anche solubile in acqua leggermente acida, quindi evita l’uso di solventi inquinanti. Inoltre, a differenza del bianco d’uovo o della seta, non sottrae risorse all’agricoltura o all’alimentazione umana. Per tutti questi motivi, sempre più laboratori stanno studiando il suo utilizzo su larga scala. In Francia, grazie al progetto Lithogreen, e ora anche a livello europeo con il programma Resin Green, si stanno facendo test per usare il chitosano anche nelle tecnologie più avanzate, quelle che usano luce estrema a 13,5 nanometri, necessarie per produrre i chip di ultima generazione, seguendo il ritmo previsto dalla legge di Moore, quella che dice che i chip raddoppiano la loro potenza ogni due anni circa.
Pensare che dai gusci dei crostacei si possa ottenere un materiale utile per l’elettronica più avanzata sembra fantascienza, e invece è realtà. In un mondo dove la tecnologia cresce ogni giorno, serve anche una nuova attenzione per l’ambiente, e il chitosano ci mostra ancora una volta che la natura ha sempre molte risposte da offrirci.





