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L’economia italiana è un malato terminale

beppegrillo.it - Dicembre 3, 2015

L’Istat ci dice che il Pil cresce meno del previsto. Era prevedibile, e tutto si può dire meno che il M5S non lo avesse annunciato. Non per propaganda politica, ma per evidenze economiche sotto gli occhi di tutti gli analisti. Partiamo dai numeri. Il Governo ha previsto ad inizio 2015 una crescita del Pil per l’anno in corso del +0,7%. Sull’onda dell’entusiasmo garantito dal crollo del prezzo del petrolio, più intenso e duraturo del previsto, nella nota di aggiornamento al Def di settembre la stima è stata rivista a +0,9%. Ora l’Istat corregge al ribasso la crescita a +0,8%, perché la variazione del terzo trimestre si è rivelata meno robusta di quanto atteso (solo +0,2%). A fine anno il dato complessivo potrebbe attestarsi ancora più in basso, al +0,6%. Si tratta in ogni caso di lievi aggiustamenti, quando il problema è strutturale.

L’Italia perde ricchezza dal 2008
Allarghiamo lo sguardo, uscendo dalla rissa politica di corto respiro. L’Italia ha perso dal 2008 ad oggi circa il 9% della ricchezza nazionale. Un tracollo senza precedenti in tempi di pace, e addirittura un record per quanto riguarda la durata della recessione. Neanche la crisi del 1929 è stata tanto lunga. Questa persistenza è devastante per un’economia avanzata. La disoccupazione cresce velocemente e i recenti miglioramenti sono fittizi, perché se diminuisce il tasso di disoccupazione crescono gli inattivi, ovvero cittadini in età lavorativa che non cercano più occupazione. Il singolo dato quindi migliora, ma il mondo del lavoro no. Anzi, ad ottobre diminuiscono gli occupati.

VIDEO “Non c’è niente da festeggiare”. La verità su Pil e disoccupazione

Gli effetti della disoccupazione
La disoccupazione non ha solo effetti passeggeri. Ogni disoccupato di lunga durata è una perdita di ricchezza sociale per tutti. Dal lato puramente economico la disoccupazione di lunga durata si traduce in maggiori costi sanitari e giudiziari (depressione, malattie, violenza famigliare) e in una sensibile disgregazione dei legami sociali. Il disoccupato, purtroppo, tende all’isolamento e non brilla per combattività, perché essendo impegnato nella sopravvivenza quotidiana sua e dei suoi famigliari non ha tempo ed energie per rivendicare diritti a livello politico.
Non solo. Un alto tasso di disoccupazione fa comodo al profitto delle grandi industrie, mentre danneggia le piccole e medie imprese, che producono il grosso della ricchezza nazionale. È molto facile imporre ai propri dipendenti ritmi di lavoro massacranti e salari più bassi, quando alle porte delle aziende bussano 6 milioni di disoccupati pronti a svendere il loro lavoro pur di tirare a campare. Ma un tasso di disoccupazione molto alto ha un’ovvia conseguenza: la domanda di beni e servizi da parte delle famiglie cala e si attesta a livelli molto bassi. Si scatena allora una guerra interna al capitale.

Le PMI muoiono, le multinazionali battono cassa
Migliaia di piccole e medie imprese chiudono i battenti, lasciano a casa altri lavoratori e massacrano i bilanci bancari, sommersi di crediti inesigibili. Poche grandi aziende riescono invece a sopperire alla minore domanda interna rivolgendosi ai mercati esteri (esportazioni). Neanche le grandi aziende, però, possono prosperare in questo contesto, se la crisi economica è di dimensioni globali. E infatti le esportazioni italiane decrescono da mesi, perché la domanda estera dei Paesi emergenti, e della Cina in particolare, è in calo. Ad uscirne vincitrici sono quindi, a conti fatti, poche multinazionali con sede nei Paesi più potenti a livello finanziario. E allora marchi prestigiosi che hanno fatto la storia dell’economia italiana vengono svenduti al miglior offerente. La lista è lunga e impietosa, e comprende Indesit, Fendi, Gucci, Valentino, Bulgari, Parmalat, Galbani, Invernizzi, Pernigotti, Star, Bertolli, Peroni.

L’euro, un morto che cammina
Questo è lo scenario, a dir poco desolante. Nel 2015, dopo 7 anni di tracollo, si è verificato un piccolo rimbalzo del Pil, del tutto fisiologico e peraltro “drogato” da una congiuntura internazionale molto favorevole. Il prezzo del petrolio è letteralmente crollato e oggi sta risalendo a ritmi più lenti del previsto, l’euro si è svalutato nei confronti del dollaro, favorendo inizialmente le esportazioni. Le manovre monetarie della Bce di Draghi, pensate per tenere in vita un morto che cammina, l’euro, hanno permesso un leggero risparmio pubblico sul costo del debito. Il Governo, naturalmente, si è preso i meriti della ripresina esaltando le mitologiche riforme strutturali, e in particolare il Jobs Act. Nulla di più falso, naturalmente. E il re molto presto sarà ancora nudo. Come detto, la domanda mondiale è in calo e non consente più di sopperire al crollo della domanda interna con le esportazioni. Ogni previsione sul prezzo del petrolio è prematura, dato il caotico scenario mediorientale, ma di certo vi è che il 2016 sarà l’ennesimo anno di vacche magre. La svendita del patrimonio nazionale proseguirà, e i servizi pubblici, a partire dalla Sanità, sono già nel mirino di questo Governo collaborazionista, come dimostra il testo di legge della Stabilità. Nulla di nuovo dal fronte occidentale.

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