di Noy Thrupkaew – Una decina di anni fa, passai un brutto periodo. Decisi di andare da una psicologa. La vedevo da qualche mese e un giorno mi guardò e mi disse, “Chi ti ha cresciuta fino ai tre anni?” Sembrava una domanda strana. Risposi, “I miei genitori.” Lei disse, “Non credo; perché se fosse così, avremmo a che fare con cose molto più complicate di questo.”
Così chiesi ai miei genitori chi mi avesse cresciuta fino ai tre anni. Con mia grande sorpresa, dissero che la mia prima tutrice era stata una lontana parente. La chiamavo zia.
Ricordo mia zia chiaramente, ma mi sembrava che avesse fatto parte della mia vita, più tardi, quando ero più grande, pensando a lei, riaffiorò un ricordo: ricordo che veniva picchiata e schiaffeggiata da un altro familiare. Ricordo le mie urla isteriche ogni volta che succedeva; per cose di poco conto, come voler uscire con gli amici o fare tardi.
Le cose si misero così male per lei che alla fine scappò.
Solo da adulta venni poi a sapere (o capii veramente) che aveva solo 19 anni quando fu portata negli USA dalla Thailandia per prendersi cura di me. Arrivò con un visto da turista. Finì per lavorare in Illinois per un po’, prima di tornare finalmente in Thailandia, dove la incontrai di nuovo a una manifestazione politica a Bangkok. Mi aggrappai a lei di nuovo, come quando ero bambina. Quando fu il momento di tornare a casa le promisi che avrei chiamato. Ma non l’ho mai fatto. Perché avevo paura di dirle tutto quello che rappresentava per me, che forse dovevo alle sue cure il meglio di ciò che ero diventata, e che le parole “Mi dispiace” erano come una goccia nel mare, e che forse servivano più a scacciare i sensi di colpa, la vergogna e la rabbia che sentivo per tutto quello che aveva passato per occuparsi di me. Pensai che se avessi detto quelle parole, non avrei mai più smesso di piangere. Perché mi aveva salvata. E io non avevo salvato lei.
Ora sono una giornalista, ricerco e scrivo di traffico di esseri umani da circa otto anni, eppure, non ho mai collegato questa storia personale con la mia vita professionale fino a poco tempo fa. Credo che questo profondo scollegamento simboleggi gran parte della nostra incomprensione del traffico di esseri umani. Perché il traffico di esseri umani è molto più diffuso, complesso e vicino di quanto non immaginiamo.
Sono stata in prigioni e bordelli, ho intervistato centinaia di sopravvissuti, forze dell’ordine, membri di ONG. Se penso a dove siamo arrivati con il traffico di esseri umani, sono profondamente dispiaciuta. In parte perché non parliamo di questo problema nel modo giusto. Quando dico “traffico di esseri umani”, molti probabilmente non pensano a qualcuno come mia zia. Probabilmente pensate a ragazze o donne, costrette brutalmente alla prostituzione o allo scambio di organi.
In questo mare di disperazione c’è di tutto, da chi trova una sistemazione ottimale e vive felice, a chi trova la morte nel peggiore dei modi.
In quanto giornalista, mi interessa molto il modo in cui ci relazioniamo con il linguaggio. Spesso ci convinciamo che il traffico di esseri umani è un uomo cattivo che fa cose cattive a una ragazza innocente. Quella storia non ci tocca. Tralascia il contesto sociale per cui potremmo essere criticati, per le disuguaglianze culturali, o la povertà. Ci autorizziamo a pensare che il traffico di esseri umani è solo prostituzione forzata, quando in realtà, il traffico di esseri umani è integrato nella nostra vita quotidiana.
Vi spiego cosa intendo.
La prostituzione forzata rappresenta il 22% del traffico di umani. Il 10% è il lavoro forzato statale. Ma un enorme 68% ha lo scopo di creare merci e prestare servizi cui gran parte di noi si affida ogni giorno, in settori come il lavoro agricolo, il lavoro domestico e l’edilizia. Cibo, cure e riparo. In qualche modo, questi lavoratori essenziali sono oggi anche tra i più sottopagati e sfruttati al mondo. Il traffico di esseri umani è uso della forza, truffa e coercizione nell’obbligare qualcuno a lavorare alle condizioni di qualcun altro.
Per esempio la Thailandia è diventato il più grande esportatore di gamberi al mondo. Ma cosa c’è dietro a quella quantità di gamberi a buon mercato?
L’esercito thailandese è stato scoperto a vendere immigrati burmesi e cambogiani ai pescherecci. Quei pescherecci partivano al largo, gli uomini al lavoro, e venivano lanciati fuori bordo se si azzardavano ad ammalarsi, o cercavano di opporre resistenza. Quel pesce veniva poi usato per nutrire i gamberi, e i gamberi venivano venduti a quattro grandi distributori: Costco, Tesco, Walmart e Carrefour.
Oppure c’è quello del Ghana dove i trafficanti trovavano giovani famiglie del Ghana e del Togo, e dicevano a queste famiglie: “Le vostre figlie troveranno un’ottima istruzione negli Stati Uniti.” Individuavano poi chi tra loro otteneva la green card, e dicevano loro: “Vi aiuteremo. Vi troveremo il biglietto aereo. Pagheremo le spese. Tutto quello che dovete fare è portare questa ragazza con voi, dire che è vostra sorella o vostra moglie.” Una volta arrivati in New Jersey, le giovani venivano portate via, e messe a lavorare 14 ore al giorno, sette giorni a settimana, per cinque anni.
Hanno fatto guadagnare quasi quattro milioni di dollari ai trafficanti.
C’è traffico in settori in cui i lavoratori non sono tutelati, è quando viene negato loro il diritto di organizzarsi. Il traffico si verifica in ambienti di lavoro sistematicamente degradati. Anche qui il primo pensiero è pensare che sto parlando di nazioni in rovina, o in stato di guerra, ma sto parlando anche degli Stati Uniti.
Per diversi mesi ho fatto ricerca sul caso di traffico Global Horizons, che coinvolge centinaia di braccianti agricoli thailandesi, mandati a lavorare nelle piantagioni di ananas nelle Hawaii, di mele a Washington, e ovunque fosse necessaria mano d’opera. Veniva promesso loro tre anni di lavoro agricolo.
Così molti hanno venduto la loro terra e i gioielli di famiglia, per pagare il viaggio e le commissioni di assunzione a questa società, la Global Horizons. Ma una volta negli USA, veniva loro requisito il passaporto. Alcuni venivano picchiati, o minacciati con le armi. Lavoravano così duramente che svenivano nei campi. Questo caso mi ha molto colpito.
Tornata a casa, ho cominciato a indagare nel settore agricolo. Ho scoperto che ci sono troppi campi, e troppi pochi ispettori del lavoro. Ho scoperto diversi livelli di illegalità tra agricoltore e distributore e trasformatore e Dio sa chi altro.
Non ero l’unica alle prese con questi problemi. Pierre Omidyar, fondatore di eBay, è uno dei più grandi filantropi anti-traffico al mondo. Eppure ha investito accidentalmente quasi 10 milioni di dollari nelle piantagioni di ananas note per avere le peggiori condizioni di lavoro di Global Horizons. Quando l’hanno scoperto, lui e sua moglie sono rimasti scioccati, e hanno scritto una lettera aperta ad un giornale, dicendo che stava a tutti noi sapere il più possibile sul lavoro e la catena di distribuzione dei prodotti che sosteniamo. Sono assolutamente d’accordo.
Cosa accadrebbe se ognuno di noi decidesse di non sostenere più le aziende se non eliminano lo sfruttamento dalle loro catene di distribuzione e dal lavoro? Non si tratta di comprare una pesca del commercio solidale e finirla lì. Non funziona così. Questa è una decisione per cambiare un sistema marcio, di cui abbiamo approfittato involontariamente, ma di buon grado e per troppo tempo.
Questa è la nostra opportunità di prendere una decisione per chi siamo, in quanto persone e società.
Ero riluttante a condividere la storia di mia zia, l’avevo detto a una manciata di persone, perché, come molti giornalisti, sono più interessata a sapere le vostre storie che non a condividere la mia. Non ho ancora fatto il mio dovere di giornalista a proposito. Non ho ancora trovato mia zia. Non conosco la sua storia, cosa sia successo dopo e la sua vita ora.
La storia che vi ho raccontato è confusa e incompleta ma credo rifletta la situazione confusa e incompleta in cui ci troviamo, quando si tratta di traffico di esseri umani. Siamo tutti coinvolti in questo problema. Ciò significa anche che siamo tutti parte della soluzione. Scoprire come costruire un mondo più giusto è compito nostro, è la nostra storia da raccontare. Raccontiamola come avremmo dovuto fare fin dall’inizio. Raccontiamo insieme questa storia.
Traduzione di Anna Cristiana Minoli
Revisione di Sofia Dilaghi