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Il ritorno del fascismo in Giappone: un monito per il mondo

beppegrillo.it - Dicembre 13, 2025
di Fabio Massimo Parenti

Il mondo sta vivendo, tra cambiamenti epocali ed inerzie del passato, una chiara riemersione di governi e forze politiche neofasciste. In Europa, nelle Americhe e in Giappone, il ritorno o il riemergere di queste forze viene spesso, almeno in Italia, accolto con ingenui e complici sorrisi da parte di coloro che, a digiuno di una seria conoscenza storica del fenomeno, deridono o dileggiano il i sacrosanti moniti contro il rigurgito fascista. Dal laboratorio italiano fino ad esperienze sparse nei vari continenti, il fascismo, e le sue ramificazioni, non è mai stato una parentesi della storia, bensì un fenomeno politico che ha avuto una genealogia che dura fino ai giorni nostri. Illuminante, nella sua accurata e densa riflessione al riguardo, è il volumetto dal titolo “Il fascismo non è mai morto”, uscito recentemente in Italia e scritto dall’autorevole professor Luciano Canfora.

Nello scritto che segue, ci preme concentrarci sul riemergere della questione giapponese, da inquadrare anche in chiave comparativa al fine di coglierne la gravità e le possibili conseguenze che deriverebbero da una sua sottovalutazione. E come vedremo non si tratta di un caso isolato, e nemmeno, come in altri contesti storico-geografici, di forme folkloristiche di revanscismo e sciovinismo di stampo neo-fascista o neo-nazista.

Le posizioni della neo-premier, Sanae Takaichi, sembrano ricollegarsi ad un revisionismo storico preoccupante, riabilitando un linguaggio militare aggressivo e posizioni nazionalistiche radicali. Ciò, unito alle trasformazioni de facto dell’assetto costituzionale giapponese, potrebbe avere gravi ripercussioni non solo per la pace nella regione dell’Asia-Pacifico, ma per il mondo intero. Se si continueranno a dimenticare le lezioni della storia e non si svilupperà un sincero fronte anti-fascista, i drammi del passato potrebbero resuscitare ad una scala incontrollabile, come ci insegnano nell’attualità i casi ucraini, mediorientali ed africani.

Quando si discute del ritorno del militarismo in Giappone, c’è un elemento giuridico potenzialmente esplosivo: la cosiddetta “Enemy State Clause” della Carta delle Nazioni Unite. Stiamo parlando dell’articolo 107 e parti degli articoli 53 e 77 della Carta, che costituiscono un’eccezione al divieto generale dell’uso della forza nei confronti degli Stati che durante la Seconda guerra mondiale facevano parte dell’Asse: Giappone, Germania, Italia e altri paesi a loro alleati. L’articolo 107 afferma che nulla nella Carta invalida o impedisce azioni intraprese, o autorizzate, contro uno “Stato nemico” in conseguenza della guerra. Malgrado queste clausole siano già state considerate obsolete alla luce dei cambiamenti storici, in realtà non sono mai state formalmente cancellate. In linea di principio, la clausola consente ancora misure di “azione coercitiva” contro gli ex Stati dell’Asse senza un nuovo mandato del Consiglio di Sicurezza. Le parole provocatorie e gravi della premier si combinano con le spinte al riarmo di Tokyo, che, ad esempio, Parallelamente, il Giappone ha intrapreso negli ultimi anni un percorso di riarmo accelerato e di revisione dottrinale. La nuova National Security Strategy del 2022 introduce esplicitamente la possibilità di colpire basi nemiche con missili a lungo raggio, pur all’interno del quadro interpretativo della difesa “strettamente necessaria” . Il governo ha inoltre deciso di portare la spesa per la difesa a circa il 2% del PIL entro pochi anni, con un programma di rafforzamento delle capacità militari da 43 trilioni di yen entro il 2027. Secondo i dati recenti di Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), dal 2015 a oggi ha fatto registrare un aumento delle spese militari pari al 49%. In questo contesto, lasciare che un ex Stato dell’Asse assuma nuovamente un ruolo militare offensivo o semi-offensivo – soprattutto in scenari extra-territoriali – significa riaprire un dossier che non riguarda solo l’Asia ma anche l’Europa.

Se si accetta l’idea che il Giappone possa reinterpretare in senso espansivo il proprio ruolo militare pur restando formalmente sotto l’ombrello della Carta, è difficile negare che la stessa logica possa, domani, essere proiettata su altri ex Stati nemici, Germania e Italia in primis. Ciò indebolisce il tabù politico e giuridico – l’intero assetto post-bellico – che ha garantito per decenni la natura strettamente difensiva delle loro politiche di sicurezza, rischiando di mettere ulteriormente in pericolo la pace in Asia e in Europa.

Il militarismo come patologia globale

Il caso giapponese si inserisce in una tendenza più ampia: il ritorno del militarismo come linguaggio politico “normale” e come strumento privilegiato di gestione dei conflitti. In Europa la lingua del militarismo è tornata in auge, almeno negli alti ranghi delle élite dell’Unione e in alcuni governi reazionari come, guarda caso, Italia e Germania, negli Usa il militarismo ha rappresentato il perno dell’espansionismo globale, nonché il tratto culturale di una società che continua a difendere e in larga parte a venerare il culto delle armi, mentre in Asia proliferavano nuove potenze nucleari. Secondo il SIPRI, la spesa militare mondiale ha raggiunto quasi 3 trilioni di dollari, in costante aumento negli ultimi anni. Nel 2024 oltre cento paesi hanno aumentato il proprio bilancio militare, spesso a discapito di investimenti sociali e ambientali. Questo boom degli armamenti alimenta dinamiche di sicurezza competitiva (se un vicino compra missili a lungo raggio, mi sentirò spinto a fare altrettanto), spostando le risorse da sanità, istruzione, transizione ecologica e lotta alla povertà verso il settore militare, e infine rafforzando apparati e culture politiche che tendono a considerare la forza armata come strumento ordinario e non eccezionale di politica estera.

La storia del Novecento mostra dove conducono queste spirali: nel giro di pochi decenni, la combinazione di militarismo, nazionalismo radicale e ideologie razziste ha portato a due guerre mondiali e a forme di violenza di massa senza precedenti. Per questo il ritorno di un linguaggio militare aggressivo, di dottrine basate su “colpi preventivi” e di retoriche che esaltano la “volontà di potenza” non è un fenomeno neutro. Si tratta piuttosto di una regressione storica che mina la base stessa dell’ordine internazionale costruito dopo il 1945.

Il razzismo e l’uso della forza contro gruppi sociali considerati inferiori ha rappresentato e rappresenta il nocciolo di una ideologia che sta resuscitando nella contemporaneità. Lo sterminio accelerato che si sta compiendo in Palestina ad opera dello Stato di Israele e con il beneplacito dell’occidente è forse la manifestazione più aberrante, e solo apparentemente paradossale, di queste tendenze fanatiche ed estremiste.

Radicalizzazione sciovinista nel Giappone contemporaneo

Come sappiamo l’ideologia fascista nella storia non è rimasta confinata alla propaganda: ha prodotto leggi razziali, campi di concentramento, guerre d’aggressione e genocidi. Il fascismo e il nazismo sono stati sconfitti militarmente nel 1945, ma le sue scorie ideologiche non sono mai scomparse del tutto. Nel dopoguerra sono nate, in varie parti del mondo, regimi fascisti e dittatoriali, nonché organizzazioni neo-naziste che riprendono simboli, retoriche e miti del Terzo Reich. Il Giappone non è estraneo a queste dinamiche. Nel 2014 è emersa, ad esempio, una fotografia in cui l’attuale neo-premier Sanae Takaichi, posa con il leader del National Socialist Japanese Workers’ Party, una piccola formazione neo-nazista. La premier ha poi negato di conoscere l’identità del suo interlocutore, ma l’episodio ha suscitato preoccupazione, soprattutto perché si inseriva in un più ampio contesto di revisionismo storico e di gesti simbolici controversi, come le visite ai santuari dove sono commemorati criminali di guerra condannati.

Ancora più rivelatore, sul piano simbolico, è il caso del libro pubblicato nel 1994 da Yoshio Ogai, allora responsabile delle pubbliche relazioni della federazione metropolitana del Partito Liberal-Democratico di Tokyo, dal titolo “Hitler’s Election Strategy: A Bible for Certain Victory in Modern Elections”. Questo volume proponeva le strategie elettorali di Adolf Hitler come modello per i politici giapponesi contemporanei, attingendo anche al Mein Kampf e presentando il dittatore come un maestro di comunicazione politica e di unificazione dell’opinione pubblica, senza menzionare i crimini del regime nazista e la Shoah. La pubblicazione suscitò un’ondata di proteste che portarono al ritiro del libro dal mercato. Il nodo, però, non è solo il contenuto del volume, ma il fatto che nel 1994 una giovane parlamentare destinata a diventare, trent’anni dopo, primo ministro, abbia prestato il proprio nome per promuovere quel testo. Ingenuità? Errore di gioventù all’inizio della sua carriera politica? Sicuramente i contenuti controversi del volume ne suscitavano una sua piena adesione e la condotta che sta tenendo in questi primi mesi di governo non sembrano estranei a posizioni fanatiche di estrema destra. Secondo alcuni osservatori, la promozione fatta all’epoca dalla Takaichi intrecciava l’esperienza personale di militanza con una lettura positiva della “teoria della volontà” proposta in un manuale che usa Hitler come modello. L’idea implicita è che il successo politico derivi dalla capacità di trasformare in energia la propria “volontà” contro i “nemici”, sullo sfondo di una narrativa ampiamente depurata dei crimini del nazismo. Questo episodio, sommato alle altre controversie che circondano alcune figure di punta della destra giapponese contemporanea, segnala un problema più profondo: la banalizzazione dell’immaginario nazista e la sua lenta infiltrazione nel discorso politico mainstream.

Dal punto di vista storico e morale, la rinascita di simbologie e discorsi che riabilitano, anche solo in forma tecnica o allusiva, elementi riconducibili al nazismo è radicalmente incompatibile con l’architettura costituzionale su cui si fondano le democrazie europee. Le Costituzioni nate dalla Resistenza – in Germania come in Italia – non si limitano a proibire la ricostituzione dei partiti fascisti: sanciscono una rottura irreversibile con il culto della forza, con la logica del capo e con la guerra come strumento ordinario di governo dei popoli.

Sul piano strategico, ogni ritorno del militarismo all’interno di una grande potenza industriale – europea o asiatica che sia – alimenta ulteriormente la corsa globale agli armamenti e rafforza complessi militari-industriali ormai in grado di condizionare, con le loro esigenze, la definizione stessa della politica estera. In tale quadro, gli incentivi alla conflittualità diventano strutturali, e la soglia della guerra si abbassa progressivamente, come la storia del XX secolo ha dimostrato con tragica chiarezza.

Per tutte queste ragioni, il dibattito sul Giappone non può essere relegato a una questione interna o regionale. Al contrario, il modo in cui la comunità internazionale – e in particolare gli ex Stati dell’Asse europei – reagirà al riaffiorare di pulsioni militariste e alla normalizzazione di riferimenti, diretti o indiretti, all’immaginario fascista e nazista all’interno di un governo alleato costituirà un banco di prova decisivo per la tenuta dell’ordine internazionale.

Difendere oggi la pace in Asia e in Europa significa rifiutare con fermezza ogni tentativo di riabilitazione, banalizzazione o utilizzo strumentale dell’eredità fascista e nazista; significa riaffermare, contro i nuovi apologeti della “forte volontà”, il primato del diritto internazionale, il controllo democratico delle forze armate e la memoria storica delle vittime. Solo così sarà possibile impedire che le tragedie del passato tornino a riproporsi sotto nuove forme, in un mondo già attraversato da tensioni sempre più pericolose.

 

L’AUTORE

Fabio Massimo Parenti è attualmente Foreign Associate Professor di Economia Politica Internazionale alla China Foreign Affairs University, Beijing. Ha insegnato anche in Italia, Messico, Stati Uniti e Marocco ed è membro di vari think tank italiani e stranieri. Il suo ultimo libro è “La via cinese, sfida per un futuro condiviso” (Meltemi 2021). Su twitter: @fabiomassimos

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