“È impossibile rimanere nella propria casa se è stata inondata. Non è possibile coltivare la terra o allevare il bestiame se non piove da anni” (Atlante delle Migrazioni 2022, Istituto Rosa Luxemburg).
di Stefano Balbi e Anju Anna John – Praticamente tutti gli appassionati di alpinismo conoscono il Pakistan: un paese che ospita cinque delle 14 vette più alte del pianeta.
È forse meno risaputo che il Pakistan sia anche un caso interessante per la sua demografia caratterizzata da una crescita sostenuta della popolazione, ma anche da significativi flussi migratori in uscita. In questo breve articolo, utilizziamo l’esempio del Pakistan per approfondire il tema della migrazione climatica.
L’estate scorsa, le piogge monsoniche estreme, che si sono verificate solo un paio di mesi dopo una delle più letali ondate di calore, hanno fatto sì che il paese ricevesse circa tre volte le precipitazioni abituali per il mese di agosto. Di conseguenza, il fiume Indo – che nasce sull’Himalaya e attraversa il paese in tutta la sua lunghezza, prima di sfociare nel Mar Arabico – è straripato dai suoi argini e ha inondato un terzo del territorio nazionale, cambiando la vita di oltre 33 milioni di persone e distruggendo vaste aree coltivate. Migliaia di persone hanno perso la vita, i raccolti colpiti sono andati distrutti. Sei mesi dopo questa catastrofe, la popolazione del Pakistan sta ancora lottando per avere acqua potabile e servizi igienici. A rendere ancor più drammatico il tutto è il fatto che il Pakistan sia responsabile di meno dell’1% delle emissioni globali di gas serra che stanno moltiplicando questi eventi meteorologici devastanti.
Eppure la popolazione del Pakistan non è la sola a soffrire di questa vulnerabilità climatica. Secondo il Gruppo Intergovernativo di esperti sul Cambiamento Climatico (in inglese, IPCC), 3,3 – 3,6 miliardi di persone in tutto il mondo vivono in contesti che li rendono altamente vulnerabili ai cambiamenti climatici. Le persone che vivono in regioni come l’Africa occidentale, centrale e orientale, l’Asia meridionale, l’America centrale e meridionale, i piccoli stati insulari e l’Artico sono particolarmente sensibili ai rischi climatici.
Il deterioramento delle condizioni ambientali dovuto ai cambiamenti climatici costringe sempre più persone ad abbandonare le proprie case. Gli esperti dell’Istituto per l’Economia e la Pace (IEP) stimano che circa 1,2 miliardi di persone saranno sfollate a livello globale entro il 2050 se i disastri naturali continueranno a verificarsi allo stesso ritmo degli ultimi decenni. Ma si tratta di stime prudenti, dato che si prevede che tali disastri naturali si intensificheranno e diventeranno più frequenti nei prossimi anni.
Contrariamente alle preoccupazioni di molti in Occidente, il Rapporto Global Trends 2021 dell’UNHCR – l’Agenzia per i Rifugiati delle Nazioni Unite – mostra che quasi il 60% degli 89,3 milioni di persone sfollate sono migrate in luoghi all’interno del loro paese. Di quelli che hanno lasciato il paese, il 72% è stato ospitato in nazioni vicine a quella di origine. Tuttavia, oggi il diritto internazionale riconosce come rifugiati solo coloro che non possono o non vogliono tornare nel loro paese per il fondato timore di essere perseguitati per motivi di razza, religione o opinione politica. Pertanto, l’UNHCR preferisce riferirsi a coloro che fuggono dal proprio paese a causa degli effetti dei cambiamenti climatici come “persone sfollate nel contesto di disastri e cambiamenti climatici”, tenendoli così fuori dall’ambito della protezione garantita ai “rifugiati” dal diritto internazionale.
Gli studi per prevedere la migrazione indotta dai cambiamenti climatici sono complicati perché la migrazione è tipicamente influenzata da una moltitudine di fattori e quasi mai da un’unica causa. I fattori ambientali influenzano sempre di più le altre motivazioni, come quelle economiche (opportunità di lavoro), sociali (istruzione, famiglia) e politiche (persecuzioni, conflitti, incentivi politici). Un recente rapporto di Oxfam mostra il legame tra i cambiamenti climatici e la scarsa sicurezza alimentare in 10 dei maggiori hotspots climatici del mondo. Nelle regioni in cui il sostentamento delle persone dipende dall’agricoltura e dall’allevamento, gli eventi meteorologici estremi (come inondazioni e siccità), così come gli eventi di lenta insorgenza (innalzamento del livello del mare o desertificazione), incidono sulla sicurezza alimentare e fanno aumentare il costo del cibo.
A ben vedere, la migrazione può presentare vantaggi sia per gli individui e le famiglie, che per lo stato di provenienza ed il paese ospitante. Presso il paese di origine, l’emigrazione può aiutare le comunità a trovare nuove fonti di reddito e a diventare più resilienti ai cambiamenti ambientali. Nel paese di destinazione, l’immigrazione può fornire forza lavoro qualificata e/o a basso costo alle economie che devono affrontare le conseguenze dell’invecchiamento della popolazione e dei bassi tassi di natalità. Tuttavia, anche in scenari di partenza drammatici, la decisione di migrare non è così semplice. Il costo della migrazione scoraggia i poveri (e spesso i più vulnerabili) dal trasferirsi. Anche fattori come i conflitti in corso impediscono alle persone di lasciare queste regioni. Coloro che riescono a migrare devono affrontare reazioni xenofobe nei paesi ospitanti da parte di persone che li percepiscono come una concorrenza per il lavoro o come una minaccia per la sicurezza. Alcuni studi hanno rilevato che l’efficacia della migrazione è ostacolata da fattori quali lo sfruttamento dei lavoratori migranti, gli effetti negativi sulla loro salute e la maggiore vulnerabilità di genere delle donne e dei bambini quando gli uomini emigrano per lavoro.
Tutto ciò evidenzia la necessità di affrontare con coraggio il tema della mitigazione dei cambiamenti climatici nelle politiche internazionali, mentre si lavora per affrontare la realtà delle migrazioni climatiche. Quest’ultima richiede sforzi per definire, quantificare e prevedere la migrazione climatica nei prossimi anni. Una potenziale soluzione al problema risiede nell’adozione di soluzioni basate sulla natura, ovvero azioni che proteggono, gestiscono in modo sostenibile e ripristinano gli ecosistemi naturali e modificati per affrontare le sfide della società. A questo proposito, le conoscenze tradizionali delle comunità indigene potrebbero rivelarsi preziose.
Da parte sua, il Pakistan ha già avviato sforzi per mitigare i rischi di alluvione, concentrandosi sulla riforestazione e l’afforestazione, sul ripristino delle zone umide, sulla gestione sostenibile del territorio e sulle infrastrutture verdi. In quanto a noi, non è ancora troppo tardi per ridurre le nostre emissioni di gas climalteranti e fornire alle comunità più vulnerabili i mezzi (finanziari) per consentire un adattamento efficace e possibilmente basato sulla natura.
GLI AUTORI
Stefano Balbi – Ricercatore presso il Centro Basco sul Cambiamento Climatico (BC3) e la Fondazione Basca per la Scienza (Ikerbasque).
Anju Anna John – Stagista presso il Centro Basco sul Cambiamento Climatico (BC3) e borsista del Campus Globale sui Diritti Umani (GCHR).
Di seguito il film “Climate Refugees” di Michael P. Nash