de l’Elevato e il suo aggregatore – L’ultimo Rapporto ISTAT (2020) “Le partecipate pubbliche in Italia” segnala 6.085 società partecipate pubbliche, operanti nel settore dell’industria e dei servizi, con un totale di 887.059 addetti ed una dimensione media di 146 addetti, valore che sale a 406 per le società per azioni. Le partecipate locali sono 4.240 e impiegano 415.243 addetti. Le imprese a controllo pubblico sono 3.585, con un totale di 587.890 addetti e una dimensione media di 164 addetti.
In un Rapporto del 31 gennaio 2022, la Camera dei Deputati riporta che – secondo gli ultimi risultati economici confrontabili, risalenti al 2015! – il 61% di tali società risulta avere chiuso il bilancio in utile, con un risultato di esercizio pari a circa 1 miliardo di euro. Le società in perdita, allo stesso anno, sono il 34% del totale e le loro perdite complessive si attestano a 1,1 miliardi euro. Tutto questo dà pienamente l’idea di un sistema con un ristretto numero di imprese di eccellenza, cui fanno purtroppo da contraltare moltissime realtà disfuzionali.
Leonardo e Fincantieri, ad esempio, nel settore militare e delle grandi commesse della cantieristica; SNAM e Terna, nell’ambito dei vettori di trasporto dell’energia; ENI ed ENEL, nella produzione di energia e nell’erogazione di servizi a cittadini ed imprese. Aziende importanti, con una grande esperienza alle spalle, che potrebbero in alcuni casi integrarsi a valle anche con realtà, come le multi-utilities, detenute da amministrazioni regionali e comunali.
Una integrazione verticale e orizzontale che, se pianificata con intelligenza e tempestività, porterebbe a superare il nanismo italiano e concentrare gli investimenti strategici, industriali e di ricerca, in settori che richiedono da subito nuovi e più importanti capitali ed una maggiore capacità di rispondere alle esigenze dei cittadini.
Aree in cui cresce la necessità di contare di più rispetto alle controparti estere – spesso Governi e mercati in cui le dimensioni sono essenziali per competere – o alle multinazionali, e dove giocatori realmente globali possono favorire l’internazionalizzazione di intere filiere di piccolo e medie imprese italiane, anche semplicemente attraverso la sub-fornitura.
Aziende che potranno decidere così di rafforzarsi a livello globale incorporando concorrenti esteri, come per anni è accaduto, a parti invertite, in Italia.
Certo, nel dar vita a poli di eccellenza che integrino verticalmente partecipazioni detenute da Stato, Regioni e Comuni, diminueremo anche poltrone e sprechi, ridurremo il peso abnorme della politica e renderemo più efficienti, oltre che controllabili, bilanci e operazioni, diminuendo così il rischio di infiltrazione criminale, di spionaggio e di corruzione. Gli effetti positivi, poi, non mancheranno sia in fase di acquisizione delle materie prime, che nelle eventuali gare per la concessione di servizi o per la fornitura di beni, che infine nel posizionamento di queste aziende nei confronti dei consumatori finali o nel mercato dei beni intermedi.
Attraverso la creazione di questi poli strategici nazionali, potremmo contribuire a ridisegnare il ruolo del nostro Paese a livello globale, in un momento in cui assistiamo ad una vera e propria ridefinzione dell’ordine internazionale.
Aggregare i grandi poli strategici nazionali, partendo dalle participate di Stato, darà un decisivo contributo a rendere il sistema produttivo italiano nuovamente leader sulla scena globale.
E’ arrivato il momento di pensarci. Seriamente, tempestivamente.