In Italia, ogni giorno si denunciano in media 68 sparizioni: a fine 2024 i fascicoli aperti erano ancora 10.077, nonostante 14.628 ritrovamenti nello stesso anno. Sono numeri che raccontano un impegno costante ma anche un fenomeno che cresce più in fretta delle risorse dedicate.
Sul piano giuridico la ricerca è disciplinata dalla legge 203/2012, che ha istituito il Commissario straordinario per le persone scomparse e ha imposto piani provinciali di ricerca coordinati da Prefetture, Forze di polizia e Protezione civile. Quando, però, quell’attività confluisce in un fascicolo penale, il pubblico ministero può chiedere al giudice di archiviarlo se non emergono elementi di reato sufficienti a sostenere l’accusa. L’articolo 408 del codice di procedura penale (la stessa norma che chiude indagini su omicidi o frodi) vale anche per chi sparisce senza lasciare tracce. Sulla carta l’archiviazione non è una resa, il fascicolo rimane riesumabile se arrivano nuovi indizi. Nella pratica, però, significa che non ci sono più investigatori assegnati in modo stabile, che le rogatorie internazionali si fermano e che la famiglia deve farsi carico di stimolare ogni nuovo passo. È il punto in cui la mancanza di personale specializzato, la mole di procedimenti e gli oneri di perizie o trasferte diventano determinanti.
Dentro questo scenario fatto di ostacoli strutturali e decisioni giudiziarie che somigliano a una resa, si inserisce la storia di Alessandro Venturelli, ventunenne svanito da Sassuolo il 5 dicembre 2020. In quattro anni il suo fascicolo ha cambiato più volte qualificazione giuridica, da “allontanamento volontario” a “sequestro di persona a carico di ignoti”, ma ogni proroga scade puntualmente senza svolte. La Procura di Modena ha ora depositato la terza richiesta di archiviazione; l’udienza è fissata per l’8 luglio 2025 e davanti al tribunale è atteso un presidio di famiglie provenienti da tutta Italia.
La madre, Roberta Carassai, si oppone con tenacia. In uno dei suoi appelli ha dichiarato che «Archiviare vorrebbe dire dire ai genitori di tutti i dispersi che la speranza ha un prezzo, e che lo Stato non è disposto a pagarlo».
In un Paese in cui la giustizia si misura anche dalla capacità di non dimenticare, la voce di una madre che cerca suo figlio non può cadere nel vuoto. Roberta Carassai non chiede miracoli, ma rispetto e ascolto. Chiede che lo Stato non chiuda la porta, che non archivi il dolore e che non sigilli un fascicolo come se fosse solo carta. Rispondere al suo appello significa mostrare che la parola “Stato” può ancora essere sinonimo di cura e non di resa. Lo speriamo davvero.





