di Rudy Gnutti – Dopo aver presentato “In the same boat” in molte Paesi, accompagnato da economisti di diversa provenienza ideologica, continuo ad avere molti dubbi e poche certezze. Una cosa mi sembra però evidente: la tecnologia sta cambiando il mondo, ma, in quasi tutti i campi dall’economia, alla sociologia o alla psicologia, si fa fatica ad adattarsi.
I protagonisti di “In the same boat” Zygmunt Bauman, Jose Mujica, Mariana Mazzucato, Rutger Bregman o Dani Raventos, si interrogano sull’impatto che ha lo sviluppo tecnologico sulle nostre vite: vogliamo o no vivere delegando alle “macchine” gran parte del lavoro produttivo? Siamo pronti per affrontare tali cambiamenti sistemici?
Oggi il mondo si trova di fronte a scelte epocali: la pandemia, come ormai è evidente, ha accelerato i tempi. La strada che prenderemo oggi segnerà il futuro delle prossime generazioni.
Sono molti i governi e le organizzazioni internazionali che hanno ragionato e stanno ragionando su questi temi: qual è la strada giusta? Una pianificazione a breve termine? Ma anche, qual è la meta finale, la visione a lungo termine?
Per trovare una situazione simile dobbiamo tornare al 1930, tra le due guerre, quando l’occidente attraversava un momento critico: il mondo era sprofondato in un baratro dopo il crack economico del 1929, la disoccupazione e la miseria avevano messo in ginocchio tutto il sistema e i nazionalismi e i populismi facevano presagire un futuro incerto.
In Inghilterra ma non solo, tutti gli sguardi si rivolsero a un personaggio eccezionale, fuori dagli schemi e considerato, già da allora, uno degli economisti più importanti del secolo: John Maynard Keynes con la sua rivoluzione teorica che si guadagnò ben presto il nome di “rivoluzione Keynesiana”.
Keynes, con una formula molto semplice, spiegò che per uscire dalla crisi lo stato doveva investire in tutti i settori. Con un effetto domino questo avrebbe riattivato il lavoro e di conseguenza il consumo che, a sua volta, avrebbe riattivato la produzione.
Questa era la sua ricetta, la sua strada, la sua proposta a breve termine, immediata. Ma qual era, allora, la proposta a lungo termine? Dove ci avrebbe dovuto portare quella scelta?
Keynes lo spiega, nel 1930, in un documento poco noto “Le prospettive economiche per i nostri nipoti”.
Tra 100 anni, quindi nel 2030, il mondo grazie alla tecnologia cambierà radicalmente, ci dice Keynes, le macchine sostituiranno il lavoro umano e tutti ne otterranno i benefici. Lavoreremo 3 ore al giorno prima della meta finale: la scomparsa totale di quello che lui chiama “problema economico”.
Oggi, la strada è la stessa proposta da Keynes, lo stato sarà il primo investitore per spingere il resto, ma attenzione, non stiamo al chilometro 0, non siamo nel1930, siamo ormai prossimi alla meta del 2030, quindi le caratteristiche di quella stessa strada sono completamente cambiate.
Ma quali sono queste differenze che i nostri leader staranno, ci auguriamo, già prendendo in considerazione?
- La tecnologia è notevolmente avanzata, è cosi efficace che molti degli impieghi anche intellettuali vengono già delegati alle macchine. Quindi oggi, se lo stato investe, non significa, come nel 1930, che riesca a creare automaticamente lavoro sufficiente per tutti. Dipenderà dal settore.
- L’elemento più urgente che neanche Keynes aveva previsto: come facciamo a mandare questo motore a pieno regime utilizzando le risorse naturali come se non avessero limiti quando tutto indica il contrario? Qualsiasi attività economica, per sostenibile che sia, causa sempre un impatto irreversibile sull’ambiente.
- Se riusciamo a creare un enorme ricchezza senza creare il lavoro per tutti, come facciamo a contare su un numero sufficiente di consumatori e quindi lavoratori con salari stabili, elemento indispensabile per non rompere il meccanismo economico funzionale?
Potremmo creare sempre più prodotti e servizi nuovi per arrivare alla piena occupazione? Sarebbe una soluzione, ma il punto 2, cioè il problema della sostenibilità ambientale, ce lo impedisce.
Le imprese necessitano sempre di meno lavoratori ma le stesse imprese non possono fare a meno dei consumatori. Questo è il vero nocciolo della questione, non rompere la catena senza rinunciare agli enormi benefici della crescita tecnologica.
Qualcuno crede che ci troviamo davanti alla metafora della coperta troppo corta. Invece non è così, viviamo in un mondo sempre più ricco. Quindi la cosa più assurda è che oggi questa coperta è enorme, e ci copriamo solamente la testa, mentre la maggior parte del corpo rimane scoperto. Da una parte ci congeliamo e dall’altra la lunghissima coperta ci comincia a strozzare.
Esattamente quello che Keynes aveva scritto nel discorso del 1930: “Stiamo morendo di una crescita troppo rapida, non di scarsità”.
In Italia ha appena preso il timone del governo Mario Draghi, specializzato al Mit, una delle migliori università del mondo, dove da anni, le tesi del futuro tecnologico di Keynes vengono analizzate attentamente (fondamentale il lavoro dei massimi esperti Erik Brinjolffson e Andy McAfee).
Il nostro Premier dovrà avere sufficiente coraggio politico per ragionare su nuovi meccanismi per redistribuire la ricchezza prendendo in considerazione sia l’ambiente, sia la rivoluzione tecnologica.
Nel 1930, in Europa, gli assolutismi spinsero il mondo al secondo conflitto mondiale che si concluse con 60 milioni di morti. Oggi, nel 2021, auspichiamo che il nostro Presidente del Consiglio e gli altri leader mondiali non perdano questa occasione. Perché oggi, rispetto agli anni 30, bisogna fare i conti anche con qualcosa di straordinariamente più grande: i cambiamenti climatici, e le conseguenze potrebbero essere ancora più drammatiche.