di Saverio Pipitone – L’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, in sigla ISPRA, pubblica periodicamente in Italia il Rapporto nazionale pesticidi nelle acque, fornendo informazioni sulla qualità della risorsa idrica, statistiche sulle frequenze di rilevamento e di concentrazione di sostanze tossiche, con relative analisi delle criticità specifiche, e valutazioni dei livelli di contaminazione, sia in termini di diffusione territoriale che di evoluzione temporale, confrontati agli standard di qualità ambientale delle norme comunitarie.
I dati elaborati dall’ISPRA provengono dalle Agenzie regionali e provinciali per la protezione dell’ambiente, che effettuano le indagini sul territorio e le analisi di laboratorio, ma la copertura nazionale è ancora incompleta e c’è disomogeneità dei monitoraggi locali, principalmente nel centro-sud, con differenze di campionamento, elementi controllati e quantificazioni analitiche.
Nell’edizione 2020 per il biennio 2017-18 sono stati esaminati 35.023 campioni, per 2,5 milioni di misure analitiche e 299 sostanze rilevate, evidenziandosi una maggiore presenza di miscele, con un numero medio di 4 e un massimo di 56 sostanze in un singolo campione. In particolare, nel 2018, sono state cercate 426 sostanze in 4.775 punti monitorati, risultando un’ampia diffusione dei residui di insetticidi, erbicidi e fungicidi: nelle acque superficiali per il 77% con superamenti dei limiti ambientali del 21%; nelle acque sotterranee per il 32% con superamenti del 5%.
Dal Rapporto risulta che, oltre limite e frequentemente ritrovati, ci sono due pericolosissimi pesticidi, i più spruzzati al mondo e nella storia; si tratta dei seguenti:
– CLORPIRIFOS
Discendente dai micidiali gas nervini della seconda guerra mondiale e sostituto del proibito DDT, è un insetticida inventato nel 1965 dalla Dow Chemical, utilizzandosi su una cinquantina di colture agricole, dal mais ai broccoli e mele, nei prodotti floreali, ed anche nei trattamenti sui campi da golf e nei canili, fino negli spray o collari antipulci.
Ha un odore simile alle uova marce o all’aglio, ed è dannoso se toccato, inalato e ingerito. È considerato perturbatore endocrino sul sistema ormonale, immunitario e neurologico, impattando sull’accrescimento della vita con serie criticità nello sviluppo cerebrale dei bambini.
Anni fa, delle ricerche effettuate all’Università della California documentarono il rischio di problemi alla memoria o di abbassamento del quoziente intellettivo per i nati da madri residenti vicino ai campi innaffiati con clorpirifos. Nella medesima Università, un’équipe di professori di scienze della salute, capeggiata da Ondine von Ehrenstein, ha inoltre esaminato nella Central Valley – area californiana ad agricoltura intensiva – i dati di nascita dal 1998 al 2010 di circa 38.000 persone, di cui 2.961 con autismo, supponendo che l’esposizione prenatale e infantile all’insetticida entro 2 km dall’abitato provochi un aumento di probabilità di contrarre disturbi dello spettro autistico e lo studio è stato pubblicato a marzo 2019 nella rivista scientifica British Medical Journal.
In un’altra zona della California, ad Orange Cove, immersa fra gli agrumeti, è indicativa la vicenda della mamma quarantenne Claudia Angulo, che quando era incinta del quarto figlio, di nome Isaac, lavorava nell’imballaggio di arance, mandarini e limoni, maneggiando prodotti appena raccolti e trattati con pesticidi. All’età di 5 anni, ad Isaac, diagnosticarono l’ADHD e tuttora, che è adolescente, soffre di disabilità cerebrali. Alle organizzazioni ambientaliste che l’hanno contattata, tra cui Earthjustice e Pesticide Action Network, Claudia disse: «Sono sicura che il clorpirifos ha danneggiato il cervello di mio figlio per tutta la vita. Durante il periodo di lavoro in gravidanza, c’erano delle altre colleghe incinte ed ho saputo che pure i loro bambini hanno problemi di iperattività, respiratori, cardiaci e dermatite. Ancora oggi quando gli aerei sorvolano l’aranceto vicino al condominio dove abitiamo e spruzzano pesticidi sugli alberi, io e i miei figli abbiamo mal di testa, stanchezza e difficoltà a respirare».
I danni durano sino alla quarta generazione, come mostrato dall’Università belga di Liegi con una ricerca, coordinata dallo studioso di neuroscienze David Lopez Rodriguez, sull’interferenza endocrina nella riproduzione di 31 ratti di sesso femminile che si trasmette in maniera intergenerazionale. È se non bastasse, per i posteri, il clorpirifos sarà sempre disponibile, dato che il reparto di ecotossicologia dell’Università di Milano-Bicocca l’ha trovato ibernato nei ghiacciai del Monte Rosa, provenendo in risalita dai terreni agricoli limitrofi alle Alpi, sopratutto dalla Pianura Padana.
Dall’inizio del 2020, il clorpirifos è stato finalmente vietato in Europa e pure in California, mentre nel resto degli Stati Uniti è legale per volontà delle lobby, malgrado le denunce dei movimenti ambientalisti e l’avvertimento di 60.000 medici dell’Accademia Americana dei Pediatri sulla sua nocività.
– GLIFOSATO
Nato nel 1950 come acido debole e usato in origine per la pulizia dei tubi rurali, nel 1970 la Monsanto (adesso Bayer) scopre le sue peculiarità diserbanti e dopo qualche anno, con apposito brevetto, lancia l’erbicida dal nome commerciale Roundup (tradotto in italiano significa “retata”).
Sulla Terra sono stati finora spruzzati quasi 9 miliardi di kg di glifosato, prevalentemente sui campi agricoli, dove in passato era utilizzabile solo in pre-fioritura per evitare che l’azione non selettiva eliminasse indistintamente malerbe e colture, ed era integrato nelle fasi successive con aratura o altri diserbanti specifici su determinate infestanti a protezione del raccolto, ma con l’avvento degli OGM di tipo Herbicide Tolerant (HT) è sempre adoperabile perché non lede la pianta e rimuove soltanto le erbacce, azzerando i costi delle lavorazioni aggiuntive.
Nell’immediato, il transgenico ha significato meno erbicidi, minori costi e più produttività, ma successivamente, nella bramosia di ottenere piene rese e maggiori profitti, si è ecceduto nell’utilizzo del glifosato con la brutta abitudine di irrorarlo tardivamente e appena prima della trebbiatura cullandosi sulla sicurezza della coltura resistente, e facendo proliferare delle erbe extrarobuste, che per eliminarle occorrono diserbanti in quantità e tossicità superiori.
Nei primi anni del Duemila, il consulente di economia agricola Charles Benbrook sosteneva che nelle coltivazioni argentine di soia transgenica, rispetto a quelle tradizionali, era usato il doppio del diserbante poiché le piante avevano sviluppato una tolleranza al prodotto; all’epoca in Argentina la vendita annua di glifosato, in litri, raddoppiò raggiungendo 150 milioni e nel 2018 è di 270 milioni. Nella rivista Science Advances, di agosto 2016, fu inoltre pubblicato uno studio di economisti agrari delle Università statali di Virginia, Iowa, Kansas e Michigan, con cui venne documentato, sulla base dei dati annuali di 5.000 coltivazioni di soia OGM negli Stati Uniti nell’arco temporale 1998-2011, una media del 28% in più di diserbante necessario per gli HT. Nello stesso periodo – considerando i dati congiunti dell’organizzazione ambientalista non profit EWG e dell’agenzia di ricerche di mercato Statista – si assiste ad una esponenziale crescita dell’impiego annuale di glifosato, che in kg passa da 6 milioni a 113 milioni negli Stati Uniti e da 42 milioni a 825 milioni nel mondo.
Il glifosato, come il clorpirifos, è altamente dannoso per la salute. Gran parte del migliaio di evidenze scientifiche raccolte nell’Antologia Tossicologica del Glifosato – redatta nel 2020 in Argentina dall’ecologo Eduardo Martín Rossi – lo collegano a gravi malattie quali cancro, parkinson, encefalopatia, autismo e malformazioni, colpendo specialmente i nascituri.
Tra i tanti casi reali c’è Martina, nata con l’atresia dell’esofago; alla madre Maria Ruiz Robledo, i medici dissero che la causa era l’esposizione ai pesticidi nel piccolo borgo di residenza a Baigorrita, in provincia di Buenos Aires, dove il glifosato è capillarmente usato in agricoltura. Sempre di atresia esofagea soffre dalla nascita il ragazzino francese Théo, sottoposto ad una cinquantina di interventi chirurgici; la madre, Sabine Grataloup, quando era in gravidanza, lavorava in un maneggio nella regione di Alvernia e spargeva il glifosato sui campi di equitazione, inalando la sostanza tossica. O ancora, Silvino, un bambino paraguayano, figlio dell’ostetrica Patrona Villasboa e del bracciante Juan Talavera, che è cresciuto nel quartiere di Pirapey del dipartimento Itapúa in mezzo ai campi spruzzati da pesticidi; mentre tornava a casa con la spesa, fu avvolto da una nube di Roundup: ebbe prurito agli occhi, vomito, diarrea, naso sanguinante, due arresti cardiaci e, nei giorni successivi, morì per intossicazione grave. Poi c’è il giardiniere statunitense Dewayne Johnson, che usava il Roundup per lavoro nel distretto scolastico di Benicia Unified, contraendo un tumore e al processo contro Monsanto dichiarò: «Non avrei mai spruzzato quel prodotto a scuola o intorno alla gente, se avessi saputo che avrebbe causato loro del male. Non è etico. È sbagliato. La gente non se lo merita».
I pesticidi li respiriamo e persistono nell’atmosfera. Da qualche anno in Francia, con un progetto delle organizzazioni ambientaliste Anses, Ineris e Atmo France, ne viene misurato il livello di concentrazione e dall’ultimo report risulta che, nelle zone metropolitane, per effetto deriva ed evaporazione dai suoli, il glifosato è uno dei composti maggiormente presenti con una frequenza di quantificazione di oltre il 50%.
Acqua e aria, fonti di vita per fauna e flora, sono da troppo tempo deturpati con tremendi rischi ecologici e sanitari. Già nel 1975, Pier Paolo Pasolini, negli Scritti Corsari, nell’esporre la vita dissociata e omologata tra “sviluppo” e “progresso” – l’uno un fatto economico, voluto dal produttore dei beni superflui di consumo; l’altro soltanto una nozione ideale nella coscienza del lavoratore, e non nella sua esistenza vissuta nell’ideologia consumista – ci avvisava della scomparsa delle lucciole dovuta all’inquinante industrializzazione, senza che si potesse più rimediare o tornare indietro: «Nei primi anni sessanta – scrive il poeta – a causa dell’inquinamento dell’aria, e, soprattutto, in campagna, a causa dell’inquinamento dell’acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c’erano più. Sono ora un ricordo, abbastanza straziante, del passato: e un uomo anziano che abbia un tale ricordo, non può riconoscere nei nuovi giovani se stesso giovane, e dunque non può più avere i bei rimpianti di una volta. […] Ad ogni modo, quanto a me (se ciò ha qualche interesse per il lettore) sia chiaro: io, ancorché multinazionale, darei l’intera Montedison per una lucciola».
Tratto dal libro Pesticidi a Tavola, con aggiornamento e rielaborazione dell’autore Saverio Pipitone.
L’AUTORE
Saverio Pipitone – Giornalista pubblicista e redattore economico-finanziario. Autore di articoli di varie tematiche, dalla critica economico sociale alla storia, dall’ecologia al consumismo. Oltre a Pesticidi a tavola, ha scritto i libri Shock Shopping La malattia che ci consuma (Arianna Editrice) e Forno a Microonde? No Grazie (Macro Edizioni). Blog: saveriopipitone.blogspot.com