di Maurizio Montalto – Beviamo la stessa acqua che bevevano i dinosauri 230 milioni di anni fa. La ragione è che il ciclo dell’acqua funziona così, all’infinito. L’acqua evapora, poi ricade sul suolo sotto forma di pioggia e va a formare laghi e fiumi. Beveva acqua alla fonte l’Homo Sapiens 300.000 anni fa quando comparve nell’Africa Orientale. Circa 100.000 anni fa iniziarono i suoi grandi spostamenti e la colonizzazione dell’intero pianeta: meno di un milione d’individui. Poi, 10.000 anni orsono, scoprì l’agricoltura e qualcosa cambiò: divenne stanziale. La scoperta dei sistemi per produrre cibo e gestire l’acqua creò le condizioni per uno sviluppo demografico e intellettuale esponenziale. All’epoca della dinastia egizia, nel 5000 a.C., sul pianeta eravamo già 100 milioni e 250 milioni all’epoca dell’Impero romano. Ai primi dell’800 eravamo un miliardo, 100 anni dopo 2 miliardi. Nel 2000 siamo passati a 6 miliardi. Se le cose continueranno così, nel 2050 saremo 9 miliardi. Nella crescita umana l’acqua ha un ruolo centrale, lo sviluppo delle tecnologie anche. Dalle origini a oggi, la relazione dell’uomo con la preziosa risorsa è mutata, si è evoluta divenendo più complessa.
Nell’antichità
I Sumeri sull’acqua fondarono le prime civiltà urbane. Si stanziarono in Mesopotamia meridionale (l’attuale Iraq sud- orientale) verso il 4000 a.C.. Svilupparono l’aratro a trazione, ma soprattutto impararono a irreggimentare le acque per le loro coltivazioni. I canali irrigui, che realizzarono con grande capacità ingegneristica, riuscivano a fornire l’acqua necessaria alle produzioni. Ma nel lungo periodo emersero importanti criticità. La quantità di acqua immessa era tale che le falde idriche si alzarono avvicinandosi sempre più alla superficie. Le piante a radice profonda, che marcivano immerse nell’acqua, furono sostituite con altre a radice piatta. Ma gli accorgimenti non furono risolutivi. L’acqua continuò a salire. Arrivata in superficie evaporava rilasciando sale al suolo. Divenne impossibile coltivare. L’archeologo Joseph Tainter ce ne parla in “The collaps of complex societies” (Cambridge University 1988). I Sumeri commisero un grave errore: non realizzarono il sistema di drenaggio necessario a far defluire l’acqua in eccesso immessa nella rete d’irrigazione. Abbagliati dagli obiettivi di sviluppo e di potere, lasciarono che le imperfezioni tecnologiche prendessero il sopravvento provocando l’implosione della loro civiltà. La storia ci racconta della fine di un micro sistema il cui impatto fu circoscritto. E’ un’importante metafora per orientare le decisioni da adottare nell’attualità perché, a differenza del passato, gli effetti delle scelte tecnologiche possono avere dimensioni catastrofiche, così come possono generare benefici diffusi.
L’idea delle Nazioni Unite
Le Nazioni Unite col rapporto del World Water Assesment Program 2018 criticano aspramente la costruzione delle 57.000 dighe nel mondo per nulla compatibili con la natura. E il costo sociale che le comunità sono costrette a sopportare è enorme. Le tecnologie grigie, quelle fatte col cemento, sequestrano grandi quantità di acqua a monte e le sottraggono alle popolazioni a valle. Il rischio che generino conflitto, come quello di produrre gravi danni, è alto, talvolta concreto. In Kenya è collassata una diga che ha ucciso 50 persone e generato almeno 2.500 profughi ambientali; in Bolivia una diga ancora in costruzione ha provocato gli stessi danni.
Il Water Grabbing
L’accaparramento delle fonti è un fenomeno mondiale strettamente connesso al valore economico che l’uomo moderno riconosce all’acqua o alle produzioni che vi dipendono. Dall’antichità è mutata, dunque, la prospettiva con la quale si guarda alle risorse idriche. L’ambizione di controllare le fonti nasce dalla possibilità che generino profitto, che condizionino la politica dei territori e che siano un efficace strumento bellico. Ciò spiega in parte i modelli organizzativi imposti per la gestione, così come le scelte tecnologiche proposte con maggiore forza. Si spiega pure l’odiosa e diffusa pratica di applicare riduttori di portata idrica a coloro che non riescono a pagare il costo dell’acqua. Una sorta di tortura praticata ai poveri colpevolizzati per il loro stato d’indigenza. Paradossale che in luoghi in cui c’è abbondanza d’acqua, la condizione di scarsità idrica è provocata da chi fa con l’acqua profitto. Una scelta che può solo peggiorare la condizione sociale di chi vive in situazioni di disagio, considerato che la disponibilità di acqua pulita per l’igiene e per idratarsi è una precondizione necessaria per lo sviluppo umano e per la sopravvivenza. In Italia, questa pratica crudele si sta diffondendo ed è considerata legittima; paradossalmente il lavoratore che per ragioni etiche si rifiuti di dare seguito all’ordine di tagliare l’acqua o di ridurla a chi non può pagare, può essere penalmente perseguito. È chiaro che le leggi si sono imposte sul piano culturale come regole “giuste” e neanche ci si domanda più qual è la logica che le governa. Mai vi è di più! Il controllo dell’acqua, il potere di disporne che hanno le Corporation, genera un profitto che le tecniche di finanziarizzazione hanno elevato in maniera esponenziale. Ad aggravare la situazione, in Europa, è il principio del full cost recovery, pagano cioè tutto i cittadini, nella stessa misura, in bolletta, senza alcuna distinzione tra persone agiate e non. Per questo motivo impegnarsi nel riconoscimento del diritto all’acqua impone di cambiare le regole del gioco.
La politica dell’acqua
I Governi devono tornare a impegnarsi direttamente sull’acqua; le costruzioni e le ristrutturazioni delle opere idriche, eliminato il profitto, costeranno meno e l’intervento della politica potrà caricare gli oneri in proporzione alla capacità contributiva di ognuno dando ai ricchi la possibilità di fare la loro parte.
Ma l’impegno potrà andare oltre. Mutando la prospettiva, guardando esclusivamente a come assicurare l’acqua alle comunità, inizieremo a trovare risposte alle grandi domande. La creazione di un sistema di protezione civile internazionale per l’acqua, ad esempio, in grado di intervenire in caso di calamità, può garantire i soccorsi e la sopravvivenza delle popolazioni colpite. In Guatemala, con l’eruzione del Volcan de Fuego nel giugno 2018, l’accesso all’acqua nella zona colpita e nelle aree limitrofe è stata la necessità umanitaria da affrontare più importante. Avviene con ogni terremoto, inondazione, disastro naturale o provocato dall’uomo. L’operazione è relativamente semplice. Le creatività umane in competizione lavoreranno per migliorare le tecniche e le tecnologie già disponibili.
L’ingegno umano
L’uomo ha inventato già tanto. L’impiego di impianti, che prelevano l’acqua dal mare per creare acqua dolce e pulita, è già una realtà. Spuntano fiori nel deserto laddove un’industria fornisce l’acqua per l’irrigazione. Ma il ventaglio delle soluzioni da utilizzare è ampio e spetta alla politica fare la scelta. Le tecnologie non sono neutre. Un mega impianto può concentrare la produzione di acqua nelle mani di un unico potere economico e/o politico. Micro sistemi diffusi, come le torri di distillazione solare proposte da Giorgio Nebbia e realizzate in laboratorio in via sperimentale, potrebbero garantire ai singoli coltivatori l’acqua pulita, per irrigare i campi prelevandola dal mare o addirittura da falde inquinate rigenerandole. Gli agricoltori in rete potrebbero scambiare l’acqua in eccesso fornendone a chi ne ha più bisogno. È lo stesso modello proposto per l’energia solare da Jeremy Rifkin. È una soluzione democratica, che imita il ciclo della natura e che lascia spazio alle comunità per la gestione delle proprie necessità, senza che un soggetto terzo intervenga per prendere in mano le redini della loro vita e farvi profitto.
In occidente, lo sforzo culturale da fare necessario per giungere ai risultati auspicati, è notevole. La concezione andina (sud America) del mondo si fonda sull’idea della complementarietà nella relazione tra uomo e ecosistema con una tendenza a coltivare un rapporto affettivo, sia comunitario che individuale, con la natura. La ricerca di un vivere armonico è la base della vita di comunità. Diverso è l’approccio occidentale, essenzialmente antropocentrico, in cui l’idea di libertà giustifica l’individualismo e la sottomissione della natura alle necessità umane. Le devastazioni ambientali ne sono l’effetto. Le popolazioni indigene vivono la comunità e vi condividono la ricerca di una esistenza equilibrata. In occidente, invece, la evidente tendenza alla prevaricazione trova la propria ragione nella convinzione che si debba perseguire un obiettivo di arricchimento personale e lo si debba fare in una logica di continua competizione tra gli uomini e con la natura. Questo spiega in parte la forte richiesta di una formalizzazione dei diritti fondamentali, del diritto all’acqua, al cibo e all’ambiente in norme che, però, non potranno mai sostituirsi al buon senso e ai valori, che non siano socialmente riconosciuti. L’ipotesi, di alcuni studiosi, di imitare le Costituzioni latino americane dell’Equador e della Bolivia, al fine di cambiare lo stato delle cose, non tiene conto del fatto che quelle regole sono il prodotto di una cultura radicata e non la dotta formalizzazione di un’idea di società formulata da una élite. I passi da fare sono altri. Il processo è culturale e diffuso.
La difesa delle fonti d’acqua
Gli Stati nazione, con la globalizzazione, hanno perso forza e cedono sempre di più il passo e sovranità al mercato. Ma la presenza dei Movimenti popolari su tutto il pianeta sta mutando la geografia politica. V’è una tensione che spinge verso un bilanciamento dei poteri tra le lobby e le popolazioni. Le Corporation esercitano pressioni sui Governi e le Istituzioni internazionali, ivi incluse le Nazioni Unite. I territori muovono nella direzione opposta diffondendo consapevolezza. Talvolta gli effetti sono drammatici; nei paesi impoveriti l’aggressività delle Corporation viene espressa anche con la forza. Ma ci sono mondi diversi sullo stesso pianeta. E in Italia il referendum del 2011 è stato il frutto di un percorso di nonviolenza attiva durato oltre due lustri. Le indicazioni emerse dalle consultazioni sono chiare. Ora bisogna darvi concretezza. C’è ancora molto da fare. In primo luogo bisogna progettare il futuro sul breve, medio e lungo termine. Una sorta di piano industriale. Proprio come fanno le multinazionali! Nell’immediato bisogna fermare i processi di privatizzazione in atto. Le multinazionali stanno puntando ad accaparrarsi tutte le fonti d’acqua. Il controllo del rubinetto principale genera grande profitto a fronte di un impegno minimo, lontano dai luoghi nei quali è maturato il conflitto sociale.
Il futuro dell’acqua pubblica
Bisogna poi lavorare a una fase di transizione di medio termine. Un processo di riconversione che coinvolga gli 8000 Comuni ha la durata necessaria a destrutturare un sistema e costruirne un altro. Nel Belpaese è già possibile la gestione pubblica dell’acqua, ma i modelli organizzativi disponibili sono soggetti a regole, che ne impediscono il miglior funzionamento. È necessario rimuovere gli ostacoli. L’attuale Azienda speciale (l’Ente per la gestione pubblica) ha un’organizzazione farraginosa e burocratica, nata per funzionare in un’epoca diversa. Bisogna disegnare una nuova “Azienda per l’Acqua Pubblica” per le gestioni locali, più snella, economica e efficace. C’è poi il “Pubblico Puro”: è la soluzione più auspicabile e facilmente compatibile col funzionamento di piccoli Comuni. È l’acqua del Sindaco che dispone dei propri uffici recuperando le funzioni originarie dell’Amministrazione che rappresenta. Va escluso da subito che l’Autorità regolatrice del mercato sovrintenda ai processi, che vanno restituiti al Governo politico.
L’acqua di comunità
Sul lungo termine la soluzione è un’altra: l’Acqua di Comunità. Qui le cose cambiano, poiché dobbiamo entrare nell’idea che i cittadini devono avere una cura diretta dell’acqua. Non si tratta più di mettere in piedi un modello burocratico e amministrativo, un’organizzazione di uomini e mezzi, bensì di costruire una visione più ampia e proiettarla nella concretezza della realtà. Anche stavolta il processo è culturale. Muta la prospettiva. Dobbiamo pensare all’acqua non più con la mente del Gestore, ma con il cuore dei popoli. Le aziende erogatrici del servizio hanno il compito di portare l’acqua nelle abitazioni e di far quadrare i conti. I cittadini vanno formati a una visione ecosistemica del pianeta per poi assumersi la responsabilità dell’acqua. La preziosa risorsa va preservata, tutelata, rispettata, riconosciuta affinché possa esistere ed essere disponibile a chiunque. L’impegno di ognuno nell’indirizzo delle politiche generali ha un ruolo fondamentale. Sulle disponibilità idriche incidono le grandi opere che disastrano le sorgenti, il recupero di idrocarburi con tecniche distruttive, i metodi di coltivazione incompatibili, le produzioni industriali, che utilizzano acqua buona da bene per altre finalità, una gestione dei rifiuti, che contamina le falde, i disboscamenti, che impediscono ai terreni di conservare l’acqua, per restituirla con gradualità e tante altre pratiche umane, tutte da rivedere. Scopriremo che i mega impianti di depurazione competono con l’agricoltura togliendo qualità ai terreni, che siamo costretti a rivitalizzare con fertilizzanti chimici, che inquinano le falde e i mari, solo per garantire le economie di scala delle multinazionali. Il modello culturale da sviluppare deve tendere a imitare la natura, che non s’impegna in processi industriali, che ne garantiscano il massimo profitto economico, ma ha un approccio puntuale col quale trova soluzioni articolate a vantaggio di tutti.
In Italia e nel mondo già esistono le comunità dell’acqua: sono quei Movimenti popolari impegnati nel difendere la preziosa risorsa dall’attacco delle Corporation. Nel Belpaese v’è una rete straordinaria di cittadini sempre connessa nel portare avanti l’impegno comune, ognuno nel suo territorio. È espressione della nostra natura; la forza attualizzante (C. Rogers) trova sempre la strada per favorire la vita. Bisogna riaprire gli occhi per scoprire che vi sono angoli del paese nel quale l’acqua arriva ancora dalla sorgente, senza alcuna intermediazione. Luoghi nei quali la logica delle speculazioni non è riuscita ad imporsi. Piccoli Comuni in cui vi sono incontri periodici dei cittadini per discutere delle necessità di ognuno e per risolverle insieme, in modo che nessuno resti indietro. Conoscere e imitare questi esempi è un passo in avanti importante. Occupandoci personalmente della disponibilità dell’acqua, la gestione solidale eliminerà le spese o quantomeno i costi saranno ridotti ai minimi termini. Nella nostra epoca di avanguardia, l’uso compatibile delle tecnologie può favorire processi democratici e probabilmente annullare l’impatto negativo che possono avere i cambiamenti climatici. E torneremo a disporre di tanta acqua naturalmente, come i Dinosauri milioni e milioni di anni fa.
L’AUTORE
Maurizio Montalto – Avvocato e Giornalista pubblicista specializzato in “diritto e gestione dell’ambiente”. Presidente dell’Istituto italiano per gli Studi delle Politiche Ambientali. È stato Presidente dell’azienda per l’acqua pubblica di Napoli ABC (Acqua Bene Comune). È attivista del Forum Italiano per i Movimenti per l’acqua e ha fondato la Rete a Difesa delle Fonti d’Acqua del Mezzogiorno d’Italia. Ha pubblicato: Le vie dell’acqua, tra diritti e bisogni ed Alegre, La guerra dei rifiuti ed Alegre, La Casa Ecologia ed Simone, L’acqua è di tutti ed L’ancora del Mediterraneo, La rapina perfetta ed libribianchi di stampalternativa. Ha avuto incarichi tecnici in Governi tipo Comitato Ministeriale sul diritto all’acqua, cd. Comitato scientifico del Ministero dell’Ambiente C.O.V.I.S. e ha lavorato sull’emergenza rifiuti per la Presidenza del Consiglio dei Ministri col Generale Jucci.