di Fabio Massimo Parenti
Cinque anni dopo il debutto dell’e-yuan, la Cina inaugura a Shanghai il suo Centro digitale: crescita interna, nuove regole della PBOC per le banche e spinta all’uso internazionale del renminbi. Presi insieme, questi interventi rivelano una strategia più ampia: Pechino, insieme a molti altri Paesi, sta riducendo silenziosamente la dipendenza dal dollaro statunitense. Bank of America e JP Morgan hanno preso nota, osservando che la tendenza alla de-dollarizzazione stia diventando sempre più “evidente”.
Negli ultimi settanta anni il dollaro ha conquistato la fiducia del mondo intero, soprattutto grazie allo sviluppo economico del Paese emittente e, contestualmente, a una serie di interventi politici: dal Piano Marshall alla costruzione del sistema dei petrodollari. La conquista della fiducia intorno al dollaro si è tradotta nella capacità degli Usa di finanziare spese illimitate e deficit crescenti in virtù del “privilegio esorbitante” della propria moneta. Ma oggi questa condizione appare sempre più fragile.
La quota di dollari nelle riserve delle banche centrali è passata dal 71% del 2000 al 57,7% del 2025. Nello stesso periodo, l’oro è risalito al 19% e lo yuan è entrato per la prima volta con il 3,1%. Nel contempo, la quota dei pagamenti globali in dollari, guardando alle transazioni SWIFT, è scesa dal 61% del 2010 al 48% del 2025, mentre lo yuan è salito nel giro di un decennio da 0 al 2,9%, che diventa una stima tra il 4 e il 10 per cento se includiamo anche l’uso dei circuiti NON SWIFT. Un aspetto cruciale per comprendere i cambiamenti in atto è infatti la costruzione di alternative infrastrutturali: negli ultimi anni la Cina ha sviluppato il sistema CIPS, mentre la Russia ha lanciato lo SPFS come alternativa a SWIFT. Entrambe le piattaforme sono pienamente funzionanti e svincolate da Washington, consentendo di aggirare le innumerevoli sanzioni imposte non solo alla Russia ma anche a molti altri partner come l’Iran e il Venezuela.
E-yuan e materie prime
Una quota crescente di energia e materie prime viene oggi scambiata in valute diverse dal dollaro. Russia, India, Cina e Turchia regolano contratti in yuan o valute locali, mentre l’Arabia Saudita sta pensando all’introduzione di contratti futures in yuan per il petrolio, dopo la scadenza, il 9 febbraio 2024, del contratto cinquantennale con gli Usa. Nel frattempo, cresce l’interesse per le valute digitali sovrane, come appunto l’e-yuan cinese (ma ci sono 134 paesi, che rappresentano il 98% dell’economia globale, che stanno esplorando le valute digitali delle banche centrali). Lanciato come progetto pilota nel 2020, l’e-yuan conta oggi 180 milioni di portafogli e ha raggiunto un volume di transazioni di 1 trilione di dollari a metà 2024 — un valore quadruplicato anno su anno. Questi sviluppi evidenziano l’impegno della Cina nel promuovere l’uso internazionale dello yuan digitale, con particolare attenzione ai paesi del Medio Oriente e del Sud-Est asiatico, attraverso collaborazioni strategiche e progetti pilota innovativi.
Nessuna sostituzione: lo yuan è strumento di riequilibrio
Uno degli equivoci più diffusi è che la Cina aspirerebbe a sostituire il dollaro con lo yuan. In realtà, Pechino non ha mai espresso la volontà di imporre la propria valuta come moneta dominante, perché considera insostenibile un sistema internazionale incentrato su una singola valuta. La Repubblica popolare lavora piuttosto a un obiettivo diverso: la costruzione di un ordine multipolare, anche in campo valutario, fondato sulla cooperazione tra più poli continentali e sull’uso crescente di valute locali. L’idea non è sostituire un’egemonia con un’altra, ma superare una struttura di dominio che ha alimentato squilibri e diseguaglianze globali. Il ruolo dello yuan va quindi letto come parte di un processo di riequilibrio sistemico.
I disastri di Biden e Trump
Se da un lato le alternative guadagnano terreno, dall’altro sono soprattutto le politiche statunitensi a minare la credibilità del dollaro. O meglio, sono queste ultime ad aver accelerato la ricerca di alternative di riserva, di pagamento e di scambio. Negli ultimi anni, le amministrazioni Biden e Trump hanno contribuito a politicizzare sempre di più il sistema economico internazionale: imponendo sanzioni a Paesi terzi, restrizioni commerciali, blocco di acquisizioni e, dulcis in fundo, congelamento delle riserve sovrane, Washington ha progressivamente eroso il principio della neutralità valutaria. Congelare le riserve di una banca centrale, scrive Thomas Fazi, equivale a un atto di “gangsterismo finanziario”. A questo si aggiungono il debito pubblico statunitense ormai superiore al 120% del PIL, una posizione netta sull’estero pesantemente negativa (circa 25 trilioni) e la crescente conflittualità geopolitica. L’esito di tutto ciò non può che essere un calo della fiducia nel dollaro e la ricerca attiva, da parte di molti Paesi, di strumenti di protezione ed emancipazione.
Ricapitolando
Le spinte alla de-dollarizzazione, quindi, nascono dal declino relativo degli Stati Uniti, dalle sue politiche, che continuano a orientarsi verso pratiche aggressive, e dallo sviluppo del “Sud del mondo” – con la sua storica domanda di autodeterminazione. Dal 2014, il PIL cinese ha superato quello statunitense a parità di potere d’acquisto, e oggi Pechino è il primo partner commerciale di oltre 150 Paesi. L’emersione di un “Sud globale” più integrato e consapevole si riflette nella crescita dei BRICS+ e della SCO, che insieme rappresentano ormai quasi metà della popolazione mondiale e oltre il 40% del PIL globale. Di fronte a questi cambiamenti, la risposta statunitense è stata spesso improntata a una nuova forma di unilateralismo che ha finito per accelerare la sfiducia verso il dollaro.
Lungi dall’assistere ad una sostituzione lineare con lo yuan, stiamo entrando in una fase diversa: la costruzione di un sistema multi-valutario in cui diverse monete coesisteranno con il dollaro. E sarà più veloce di quanto si possa immaginare.
L’AUTORE
Fabio Massimo Parenti è attualmente Foreign Associate Professor di Economia Politica Internazionale alla China Foreign Affairs University, Beijing. Ha insegnato anche in Italia, Messico, Stati Uniti e Marocco ed è membro di vari think tank italiani e stranieri. Il suo ultimo libro è “La via cinese, sfida per un futuro condiviso” (Meltemi 2021). Su twitter: @fabiomassimos
Nell’immagine Banconota/souvenir proveniente dalla performance di Banksy a Dismaland (agosto/settembre 2015)





