di Petra Reski – «Noi qui a Venezia siamo i canarini del mondo», dice la mia amica Jane Da Mosto, che con la sua associazione non profit We are here Venice da anni si batte per una rinaturazione della Laguna.
Come figlia di un minatore, è singolare che mi si riporti alla mente proprio qui a Venezia una storia che da bambina, quando vivevo nella Ruhr, mi impressionò talmente tanto che non l’ho mai scordata per tutta la vita. Nella mia famiglia tutti gli uomini erano minatori e ricordo che ridevano mentre raccontavano a noi piccoli la storia dei canarini adoperati nelle miniere per capire se ci fossero delle fughe di gas nocivi, dal momento che cadevano dal trespolo quando inspiravano monossido di carbonio. Oggi i canarini siamo noi qui a Venezia. E se per via dei cambiamenti climatici cadiamo dal nostro posatoio, allora è troppo tardi anche per il resto del mondo.
Dopo l’acqua alta devastante del novembre 2019 Venezia è sulla bocca di tutti. Ursula von der Leyen cita Venezia mentre espone le misure in difesa del clima e il Green Deal dell’Unione europea. Quando afferma «Vediamo Venezia sott’acqua», eravamo speranzosi che finalmente l’Unione europea si interessasse del futuro di Venezia, del canarino del mondo. Ma appena l’acqua è defluita, Venezia torna a essere sfruttata: dalle compagnie di crociera che fanno profitti, e dietro di sé non lasciano che immondizia, polveri sottili e devastazione, da Airbnb che nell’eliminare gli ultimi veneziani fu più efficace dell’epidemia di peste del 1630, e dagli speculatori immobiliari: non appena il sindaco di Venezia appone la sua firma sul regolamento del cambio di destinazione d’uso di un edificio, i profitti esplodono.
Segue il lockdown 2020, lo stupro di Venezia è temporaneamente sospeso, gli occhi del mondo sono di nuovo puntati sulla nostra città, e la monocultura turistica, che da trent’anni a questa parte è venerata alla stregua di una religione di Stato, è per la prima volta messa in discussione. Audacemente chiediamo l’impensabile: Vaporetti con motori elettrici o ibridi. Imprese artigiane e cantieri navali all’Arsenale. Adattare il traffico marittimo alla Laguna, e non la Laguna al traffico marittimo. Nessun nuovo inceneritore a Marghera, bensì un cambiamento strutturale. Perché quanto è stato possibile nella Ruhr non dovrebbe essere possibile anche a Marghera? No alla svendita dei beni immobili della città, sì al loro impiego per la collettività. Non circoscrivere la vita culturale di Venezia ai momenti clou rappresentati dalla Biennale e dal Festival del Cinema, ma rianimarla con teatro, danza e musica. E soprattutto: Fine del matrimonio forzato con la terraferma, basta con questa emergenza democratica, Venezia deve tornare ad essere un Comune autonomo.
L’unico di cui si è persa ogni traccia è il sindaco, Luigi Brugnaro. Fatta eccezione per un video in cui, insieme alla moglie, canta il grido di battaglia della sua squadra di basket, tutto quello che sentiamo dire dalla sua bocca è: zero. Nessuna proposta, nessun piano, non una parola di sostegno né di incoraggiamento. Mentre su Zoom stiamo ancora discutendo della peste Airbnb – oggigiorno a Venezia ci sono più posti letto che abitanti e 5% dei locatori raccoglie ben il 30% del fatturato – rispunta il sindaco. Per fare da imbonitore: «Americani, austriaci, stranieri, venite tutti, questo è il momento buono per comprare casa a Venezia».
«A Venezia non rimane altro che essere sfruttata?», domando al veneziano della mia vita. «Giorno dopo giorno si distrugge la memoria di Venezia», dico avvilita, «la città viene gestita come un museo a cielo aperto che può essere aperto di giorno e chiuso di sera, senza una vita vera. Vogliono che vivere e lavorare a Venezia diventi impossibile».
Il veneziano crede che il fatto che Venezia sia caduta nelle mani delle persone sbagliate, i parassiti che cercano di divorare la città, sia solo una fase momentanea. Poiché, a differenza di me, non ragiona in decenni, ma in secoli. Questa città, è il pensiero del veneziano, non insegue il presente, ma lo precede. «Venezia è la modernità», dice. «Se la si capisce bene». Dopotutto era già una città sostenibile quando questa parola non esisteva ancora. «Qui si può fare tutto a piedi», dice, «Venezia è una città a misura d’uomo, da ogni punto di vista, anche per quanto riguarda le distanze e i rapporti umani».
Eh sì, ha ragione, penso, Venezia ti mette alla prova, insieme ai tuoi sensi. Venezia è un modello opposto alla realtà, così come la conosciamo. Venezia si sottrae all’omologazione del mondo. Venezia non si adegua. Venezia è una provocazione. Che bisogna sottomettere. Con la violenza.
Secondo il veneziano, solo il fatto che i nemici di Venezia non siano mai riusciti a distruggerla, è già una dimostrazione di quanto questa città sia resistente, in altre parole della sua resilienza, un altro termine di moda che oggi rimbalza sulla bocca di tutti, mentre la resistenza a Venezia è già attuata da secoli.
«Resistere, resistere, resistere», dice.
E, ovviamente, ha ragione, dobbiamo continuare a resistere. Per questo ho scritto questo libro molto personale. È anche una chiamata alla resistenza. Contro la svendita della nostra vita quotidiana, contro il cinismo, contro la distruzione. Perché se noi canarini veneziani cadiamo dal nostro posatoio, allora è troppo tardi per tutti.
Venezia, atto finale. Un libro di Petra Reski: