di Torquato Cardilli – Faccio appello alla pazienza e soprattutto all’onestà intellettuale del lettore perché accetti di procedere facendo propria una premessa fondamentale, utile per far partire e sviluppare un ragionamento politico con la prospettiva di un futuro migliore: rifiutare ogni ideologia, ogni faziosità razziale o religiosa, ogni schieramento politico, ogni pregiudizio.
Chi non fosse disposto a spogliarsi di qualsiasi posizione precostituita, dimentico dell’insegnamento di Manzoni che sosteneva come “ragione e torto non si dividono mai con un taglio netto che ogni parte abbia soltanto dell’uno e dell’altra” e invece insiste nella divisione del mondo in “good guys and bad guys”, farà bene a non perdere tempo, a cancellare dalla memoria questo scritto, destinandolo al cestino.
Il problema di Israele e della Palestina (nomi biblici che fanno parte della nostra storia e cultura) è antico.
Oggi politici, analisti, intelligence, giornalisti, dopo anni di indifferenza, o di posizioni pre confezionate a scatola chiusa, sembrano cadere dal pero. Senza aver fatto alcuna riflessione sul fatto che l’assuefazione al dolore quotidiano rende insensibili alla compassione per le atrocità inflitte agli altri, l’Occidente intero cullato sull’assunto che in fondo i palestinesi possono accontentarsi della miseria, della condizione di sudditanza, dell’assenza di diritti, di sopravvivere con stenti nei campi profughi, appaiono improvvisamente meravigliati dall’esplosione della barbarie, frutto dell’odio per le atrocità subite da tanti, troppi anni.
La tragedia orripilante dell’attacco di Hamas, commuove anche gli animi più duri e restii ai sentimenti di compassione, ma non può essere liquidata con l’esclusiva risposta militare di annientamento di massa della popolazione di Gaza. Essa va esaminata sul piano politico, giuridico e umanitario guardando con obiettività i precedenti storici del prima e allungando obbligatoriamente la vista sul dopo, evitando di sposare qualsiasi iniziativa di vendetta (concetto medioevale, vietato dal diritto internazionale), suggerita dall’ira che è una pessima consigliera.
La filosofia ci ha insegnato che bisogna conoscere la storia per evitare di ripetere gli errori del passato. Questo è l’obbligo che incombe sulla politica, ignorato per troppo tempo da quel simulacro di istituzioni europee che parlano di armi e di guerra come se si trattasse di un videogame, e soprattutto dalla massima potenza che, con sbrigativa abitudine da far west, non ha mai pensato al dopo, come ci ricordano ogni giorno le conseguenze drammatiche su milioni di persone dell’invasione dell’Iraq, dell’occupazione ventennale dell’Afghanistan, del bombardamento e della totale disarticolazione della Libia.
Secondo Jung la maggior parte degli eventi della vita accadono per una ragione. Nulla accade senza motivo e quelli che non si rendono conto del fossato di odio che viene scavato incessantemente dal 1948 e che ingoia i palestinesi, generazione dopo generazione, priva di tutto, pure dell’essenziale, in campi profughi squallidi ove è assente la scuola e la cultura, e alberga solo l’ignoranza e il desiderio di morte, sono responsabili del continuo scorrere del sangue, per lo più innocente.
Basterebbe riflettere un attimo sull’aforisma di de La Rochefoucauld secondo cui le liti non durerebbero così a lungo se il torto fosse da una parte sola.
ILPRIMA
Chi abbia studiato un po’ di storia (cosa rara nei politici di oggi) sa che a cavallo dei secoli XIV e XV si svolse in Europa la guerra dei cent’anni tra l’Inghilterra, paese invasore, e la Francia, paese invaso. Fiammate più o meno lunghe di ostilità, con episodi di inaudita brutalità e ferocia, superiore a quella di oggi, si alternarono a periodi di pace effimera, fragile quanto la resistenza dei sigilli di ceralacca dei trattati che l’avevano conclusa. Dopo un primo periodo di circa settant’anni la Francia passò alla riscossa, grazie a Giovanna d’Arco, audace nell’organizzazione della resistenza per cacciare gli inglesi dal suolo francese e per la riconquista di Orléans e poi di Reims ove Carlo VII di Valois fu incoronato re di Francia. C’è oggi un’altra guerra dei cent’anni, questa volta non in Europa, ma in Medio Oriente, iniziata 75 anni fa, di cui la battaglia di Gaza in questi giorni tra palestinesi e israeliani non è che il più recente, ma non l’ultimo tragico episodio. (continua la lettura qui)
L’OGGI
A tre quarti di secolo dalla conclusione del secondo conflitto mondiale e a cinquanta anni dalla guerra del Kippur assistiamo ancora una volta all’esplosione della ferocia più folle nella continuazione della guerra dei cent’anni del Medio Oriente. Non ho l’ambizione di fare la cronaca puntuale dell’oggi che viene già abbondantemente illustrata in continuazione da tutti i media.
Hamas ha sferrato un attacco di inusitata barbarie uccidendo alla cieca e sequestrando cittadini israeliani inoffensivi con un’incursione all’interno del loro Stato, preparata da tempo.
Il mondo occidentale è rimasto attonito per poi schierarsi a fianco di Israele, scelta legittima e giustificata se non ci fosse stata la solita sceneggiata dello sceriffo del mondo, il presidente della guerra, che non ha esitato a minacciare fuoco e fiamme, ad inviare armi ad Israele, a spedire nella zona le sue portaerei, a convocare i capi di governo europei, della commissione, del parlamento, della Nato perché facessero subito un cordone.
Israele dopo 48 ore di stupore e smarrimento è stato travolto da un’ondata di ira vendicativa, che come la fretta non è una buona consigliera.
Replicando alla rovescia l’assedio romano della fortezza di Masada del 73 d.C., conclusosi con il suicidio di massa degli assediati, ha sigillato ermeticamente Gaza (2 milioni 400 mila abitanti di cui il 40% di età inferiore ai 14 anni), senza luce, senza acqua, senza medicinali, senza viveri, senza carburante in un assedio, vietato dal diritto internazionale. Ha applicato il criterio moltiplicatore della rappresaglia nei termini di 1000 a 1 (questo è il rapporto già seguito per ottenere la liberazione di un soldato contro mille detenuti palestinesi), con l’intenzione di punire un milione di civili (di cui 400.000 bambini) che non c’entrano con Hamas prima con un incessante bombardamento a tappeto (pure sugli ospedali) praticamente impedendo qualsiasi via di fuga.
Chissà se i politici e i generali israeliani abbiano mai pensato che i bambini palestinesi siano identici a quelli israeliani. Non è giusto per i primi, se riusciranno a sopravvivere e diventare adulti, conservare per sempre negli occhi e nella psiche gli orrori vissuti, il costante urlo dell’allarme aereo, le assordanti deflagrazioni dei bombardamenti, la perdita dei nonni, dei genitori, dei fratelli.
IL DOPO
Ora che è successo il peggiore eccidio, ciò che deve interessare alla politica è il dopo. Invece mi pare che da tutte le analisi offerte dai politologi in Italia e dalla stampa del pensiero unico ci si preoccupi di mettere all’indice quanti esprimono una voce dissonante come Travaglio, Moni Ovadia, Basile, Orsini, Gad Lerner, Mini, Fini e tanti altri pensatori.
Quanto ai luoghi dove si decidono le sorti del mondo (Washington) e dell’Europa (Bruxelles) si continua a ignorare perché si sia arrivati a questo punto e si sposino acriticamente le più oscene minacce di bombardamenti a tappeto, di distruzioni di massa, di carneficina assurda, di genocidio, pur sapendo che significano perdite di vite umane innocenti a decine di migliaia, compresi i bambini palestinesi che meritano la stessa misericordia e la stessa compassione di quelli israeliani.
Con una certa dose di ipocrisia le varie Cancellerie (anche la nostra in modo goffo) auspicano la de-escalation, ma non fanno nulla per fermare i presidenti di guerra. A cosa servono le due più potenti portaerei americane di fronte a Gaza?
Al di là dell’operazione di tremenda vendetta, che non ha posto nel diritto internazionale se esercitata contro i civili, non viene pensata una soluzione per il popolo palestinese che impedisca ad Israele di procedere alla sua completa eliminazione. In fondo questa assoluta incapacità di pensare al dopo delle guerre l’abbiamo già vista nell’invasione americana dell’Iraq, nell’occupazione per 20 anni dell’Afghanistan, nel bombardamento e disarticolazione della Libia. Di questi disastri chi ha profittato e chi ha sofferto le conseguenze senza avere un piano per il dopo?
Domani, dopo che Israele avrà raso al suolo Gaza, uccidendo 100 mila o più civili e condannandone oltre un milione ad una sopravvivenza di stenti fino alla morte, quale sarà il futuro? Sicuramente la pace non sarà più vicina. Anziché porre un freno alla crescita dell’odio, che genera odio, ci si mobilita per negare agli altri i diritti che si vogliono custodire per sé.
I politici occidentali, troppo dipendenti dal verbo unico, non capiscono che è necessario un salto nel futuro, che per spezzare la catena delle continue esplosioni di furore occorre garantire ai palestinesi benessere, giustizia, una vita decente.
L’unico modo per fermare il massacro permanente nei prossimi venti anni e la proliferazione di atti estremi nei paesi occidentali, sarebbe quello di creare una buona volta, in adempimento delle prescrizioni dell’ONU, uno stato arabo di Palestina, internazionalmente riconosciuto, smilitarizzato e protetto da cuscinetti militari di contingenti internazionali europei di robusta consistenza, lungo tutti i suoi confini di modo che la Palestina neutrale e disarmata, pur avendo tutte le libertà e i diritti degli altri stati, rinunci per sempre ad ogni forma di revanscismo. Similmente Israele dovrà restituire la Cisgiordania, smantellare le costruzioni offensive ed impegnarsi a rispettare la neutralità e l’integrità palestinese.
Temo tuttavia di peccare di utopia: si tratta di una soluzione troppo semplice per essere accettata dal mondo che corre a precipizio verso l’incubo più terrificante.
L’AUTORE
Torquato Cardilli – Laureato in Lingue e civiltà orientali e in Scienze politiche per l’Oriente. E’ stato Ambasciatore d’Italia in Albania, Tanzania, Arabia Saudita ed Angola. Ha redatto oltre 300 articoli di carattere politico ed economico pubblicati in Italia e all’estero da varie testate ed agenzie di stampa.