di Pasquale Tridico (articolo pubblicato su Huffington Post) – Negli ultimi mesi, il mercato del lavoro italiano ha evidenziato problemi storici legati al dualismo e alla segmentazione: sono emersi maggiormente segmentazioni di genere e generazionali, con i giovani e donne in posizione svantaggiata, polarizzazioni reddituali, e persino differenze di rappresentanza, con lavoratori meglio coperti da un punto di vista sindacale rispetto ad altri, e con livelli di protezione diversi. La soluzione di queste segmentazioni non può essere, come pure in passato a volte è avvenuto, pensare di ridurre le protezioni a chi le ha, ma aumentare quelle di coloro che sono in posizione svantaggiata. Il primo passo in questa direzione sarebbe il salario minimo, che merita il dibattito sollevato in questi giorni dall’Huffington Post coinvolgendo i pareri di diversi attori della politica e dell’economia.
Nel nostro Paese l’esigenza di un salario minimo legale negli scorsi decenni è stata trascurabile, alla luce soprattutto di una forte e centralizzata contrattazione collettiva. Nell’ultimo ventennio, tuttavia, la capacità regolativa del CCNL è stata fortemente indebolita da fattori sia endogeni che esogeni. Non solo si è indebolita la funzione “anticoncorrenziale” della contrattazione collettiva, ma nei casi peggiori, noti come “contrattazione pirata”, è stata addirittura foriera di dumping sociale e di law shopping, come evidenziato da numerosi economisti e giuristi. Si registra sempre più spesso un quadro all’interno del quale si vede la nascita di nuove organizzazioni sindacali e datoriali di scarsa o nulla capacità rappresentativa, firmatarie di CCNL al ribasso, il proliferare della contrattazione pirata e di “aziendalizzazioni” delle relazioni di lavoro. Oggi, in assenza di una legge sulla rappresentanza sindacale, INPS e CNEL registrano ben 854 contratti vigenti. Alla luce di questa evoluzione, sia la giurisprudenza lavorista che gli studi economici del mercato del lavoro, hanno sollecitato giustamente l’esigenza di un salario minimo legale, tanto più se integrato con la contrattazione collettiva.
Non stupisce dunque che vi sia un vivace dibattito sia sull’opportunità di introdurre un salario minimo di legge sia su quale livello monetario il policy maker debba scegliere. Come mostrato dalla letteratura, la scelta attenta dell’importo del salario minimo è cruciale per il buon esito della politica. Un importo del salario minimo troppo basso avrebbe impatti trascurabili sul mercato del lavoro, ma rischierebbe di non migliorare in modo significativo le condizioni economiche dei lavoratori più deboli. Al contrario, un importo troppo elevato, seppur migliorando in modo significativo la qualità della vita dei lavoratori coinvolti, rischia di avere un impatto negativo su occupazione e dinamica economica delle imprese. Per scegliere consapevolmente un livello di salario minimo è importante fare tesoro della ricca letteratura scientifica sull’argomento, così come anche delle indicazioni e dei confronti europei. Sono da considerare positivi anche gli impatti che un incremento di gettito, dovuto a salari più alti, avrebbero sull’aumento del gettito e sulla finanza pubblica, stimati in circa 3 miliardi di euro dal Centro Studi e Ricerche dell’INPS, nel caso, ad esempio, di salario minimo a 9 euro, e con un aumento importante di reddito disponibile per le famiglie. Per le aziende, al netto di effetti dinamici, ci sarebbe specularmente un incremento di costo. In termini redistributivi, si conseguirebbe una riduzione della disuguaglianza, calcolata come indice di Gini (-0.2 punti), e una riduzione di frequenza e intensità della povertà (rispettivamente di -0.3 punti e di -1,4 punti).
La proposta di direttiva europea sul salario minimo adeguato è stata presentata il 28 ottobre dello scorso anno, inserendosi nelle iniziative previste nell’ambito del “pilastro europeo dei diritti sociali”. Tra le motivazioni che giustificano la proposta c’è sicuramente la volontà dell’Unione Europea di garantire un salario che permetta una vita dignitosa ai lavoratori, nonché il contrasto di fenomeni come il dumping salariali e la promozione della parità di genere.
Allo stato attuale, il salario minimo viene deciso dalla contrattazione collettiva in sei paesi dell’unione, mentre nei restanti è previsto dalle norme di legge. Tuttavia, molti lavoratori dell’unione non beneficiano di questa tutela al momento, ed inoltre, spesso il livello minimo previsto non è adeguato a garantire uno stile di vita dignitoso. Come criteri oggettivi di valutazione vengono utilizzati degli standard internazionali, che fissano il livello di adeguatezza minimo come il 60% del salario mediano lordo o il 50% del salario medio lordo.
Tuttavia, la direttiva non dà indicazioni dirette sul metodo di quantificazione del salario, ma lascia i singoli stati liberi di determinarne il valore, tenendo conto delle proprie condizioni socioeconomiche.
I dati sugli importi del salario minimo orario vigenti in Europa a febbraio 2020 mostrano un’importante separazione fra paesi che registrano valori del salario minimo prossimi o superiori ai 10 € (come Francia, Olanda, Irlanda, Belgio, Germania e Regno Unito, e Lussemburgo, unico a superare i 12 €) e paesi con importi decisamente contenuti, prossimi o inferiori a 5 €, come la Spagna, la Grecia, e i paesi dell’est europeo.
Possibili impatti del salario minimo sul mercato del lavoro italiano
Al fine di calcolare i due parametri di adeguatezza citati dalla direttiva, se consideriamo per l’Italia le retribuzioni dell’universo dei lavoratori full time a tempo determinato (appartenenti al settore privato extra-agricolo per l’anno 2019) si determina che il 50% dei salari medi ammonta ad € 10,59, mentre il 60% dei salari mediani ammonta ad €7,65. Queste stime sono coerenti con le proposte, in Parlamento, di valori del salario minimo di legge che si aggirano intorno ai €8-€9.
Per valutare l’impatto dell’imposizione di un salario minimo, si possono considerare tre livelli ipotetici di salario minimo orario: €8, €8,50 e €9, distinguendo per lavoratori dipendenti del settore privato, dai lavoratori agricoli e dai lavoratori domestici, sapendo che queste ultime due categorie hanno caratteristiche molto particolari, che andrebbero discusse a parte. Inoltre, il salario minimo potrebbe essere identificato in vari modi: salario minimo riferito agli importi lordi percepiti dal lavoratore senza considerare altre voci addizionali; salario minimo che include le mensilità supplementari (tredicesima e quattordicesima); salario minimo comprensivo di mensilità supplementari e anche il TFR. Dai dati INPS, risulta che al variare di tale definizione, la quota di lavoratori coinvolti varia sensibilmente.
Se considerassimo come soglia, un valore di €9 che include la tredicesima (o dove applicabile la quattordicesima aggiuntiva), questa configurazione corrisponde ad € 8,31 lordi di retribuzione oraria per i lavoratori che percepiscono la tredicesima e ad €7,71 per lavoratori che percepiscono anche la quattordicesima.
Per quanto riguarda la suddivisione settoriale, considerando i codici Ateco dei singoli lavoratori, si registra una variabilità molto ampia, che parte dall’1,8% del settore “finanza e assicurazione” e dal 4,4% del settore “informazione e comunicazione”, al 24,3% per il settore “alloggio e ristorazione” e al 35,5% per “altre attività” del settore servizi. L’impatto dell’introduzione di questa norma avrebbe quindi ripercussioni che saranno molto eterogenee tra i diversi settori.Considerando invece la suddivisione tra le macroregioni, per quanto concerne i lavoratori dipendenti, l’incidenza in termini percentuali dei lavoratori coinvolti è più alta al sud e nelle isole (17,5%), rispetto al centro (16,7%) e al nord (13,1%).
Per quanto riguarda le variabili demografiche, l’introduzione di un salario minimo incide più sulle donne che sugli uomini. Questo risultato non varia al variare della categoria di lavoratore considerata. Inoltre, se si paragonano i dipendenti a tempo parziale, che sovente sono donne, con i dipendenti a tempo pieno, si nota che l’incidenza è molto più alta per i primi (rispettivamente 19,7% contro il 12,7%). Questi dati indicano che lo strumento dell’introduzione del salario minimo è efficace per la promozione della parità di genere, contribuendo a colmare il divario retributivo e pensionistico e aiutando le donne a raggiungere l’indipendenza economica. In riferimento alle fasce d’età, invece, tra i dipendenti privati, la norma inciderebbe maggiormente la fascia dei giovani (tra i 14 e i 29 anni) con un 28,9%, mentre le altre fasce evidenziano effetti più contenuti, intorno all’11-12%.
Infine, l’incidenza della quota di lavoratori che sarebbe influenzata è inversamente proporzionale alla dimensione dell’impresa stessa. Infatti, per le imprese piccole, sotto i quindici dipendenti, l’incidenza si assesta intorno al 20%, per poi diminuire gradualmente all’aumentare dei dipendenti, raggiungendo l’incidenza minima, intorno al 10,2%, per le imprese con più di duecento dipendenti.
Cosa ci suggerisce la letteratura economica sull’impatto dell’introduzione del salario minimo
Esiste oramai una ampia letteratura sugli effetti del salario minimo, dal primo intervento di introduzione di tale strumento di politica economica negli Stati Uniti nel 1938 da parte del presidente Roosevelt, con l’intento di far sì che “nessuna attività economica che sopravvive pagando salari sotto al livello di sussistenza abbia alcun diritto di continuare ad esistere in questo paese. […] E con livello di sussistenza non mi riferisco alla “mera” sussistenza – intendo un salario adeguato ad una vita dignitosa” (1933, Statement on National Industrial Recovery Act). Diversi economisti riportano un impatto occupazionale neutro dell’introduzione e degli incrementi di salario minimo in USA e nel Regno Unito. In Germania che ha una tradizione di contrattazione consolidata, l’introduzione del salario minimo nel 2015 si aggiunge al sistema di contrattazione, e non ha avuto né un effetto di spiazzamento della contrattazione sindacale, né un impatto occupazionale negativo. Ha avuto un effetto positivo sui redditi di circa il 15% dei lavoratori che era coinvolto (un dato molto simile a quello che potrebbe essere in Italia). Alcuni economisti hanno trovato invece un effetto di riallocazione di lavoratori, precedentemente remunerati con salari inferiori alla soglia del salario minimo, verso le imprese ad alti salari, ed i lavori non vengono distrutti ma upgraded. Infine, in Cina l’introduzione nel 2004 del salario minimo ha sì aumentato il costo del lavoro delle imprese ma allo stesso tempo ne ha alzato la produttività, ed in Ungheria, nel 2001, l’aumento del salario minimo dal 35% a circa il 60% del salario mediano ha avuto effetti minimi sull’occupazione, ha avuto un aumento dei prezzi (in settori non aperti al commercio internazionale), ed una contenuta riduzione dei profitti.
Diversi lavori hanno mostrato come i prezzi delle imprese rappresentano uno dei margini di aggiustamento, specialmente di settori quali la ristorazione, la logistica e il commercio: circa l’80% dell’aumento del salario minimo è stato assorbito da un aumento dei prezzi. Stime analoghe vengono fornite dall’analisi che accompagna la direttiva in oggetto a livello europeo, dove si prevede che circa il 75% dei costi economici dell’introduzione del salario minimo verrà trasferito sui consumatori. Ciò suggerisce che l’introduzione del salario minimo comporta anche un effetto redistributivo: mentre l’aumento del salario minimo ha un impatto sulle retribuzioni dei lavoratori a basso reddito, e non produce disoccupazione, il costo economico di tali politiche viene messo in carico alla totalità dei consumatori, e non delle imprese.
Un altro fattore da considerare è l’impatto su dinamiche di produttività. Diversi economisti mostrano un aumento delle vendite orarie, con effetti concentrati proprio sull’apporto dei lavoratori a bassa produttività negli USA. In modo analogo, per le imprese nel Regno Unito, si trovano evidenze di un aumento della produttività totale dei fattori dell’impresa. Altro elemento è l’aumento della riallocazione di lavoratori verso imprese grandi e con alti salari, tipicamente caratterizzate da alta produttività. D’altra parte, come argomentato da un importante economista italiano, Sylos Labini, i bassi salari stimolano investimenti labour intensive, a basso contenuto tecnologico e driver di scarsa produttività. Di converso, salari più alti possono stimolare investimenti capital intensive, accelerare la dinamica dei consumi e quindi far ripartire la domanda aggregata e la produttività del lavoro. Inoltre, i bassi salari sono spesso accompagnati da insicurezza e scarsi incentivi per i dipendenti, che portano ad una diminuzione dell’impegno e quindi dell’efficienza dei lavoratori sul luogo di lavoro.
Gli aumenti recenti della disuguaglianza, sia funzionale (tra capitale e lavoro) che interpersonale (catturata dall’indice di Gini), trovano probabilmente origine non solo nella scarsa dinamica della produttività – pesantemente imputate all’Italia in ogni confronto con altri Paesi ed economie – ma anche in una allocazione socialmente non efficiente dei vantaggi di produttività. La tendenza empiricamente rilevata, dagli anni 80 in poi, di una riduzione della quota salario sul Pil evidenzia un fenomeno relativamente nuovo che in passato molti economisti avevano escluso, affermando invece una certa costanza del rapporto Capitale/Pil e Salari/Pil. Quest’ultimo rapporto, la quota lavoro, è in diminuzione non solo in Italia ma in tutti i paesi avanzati In questo contesto, molte evidenze economiche, dimostrano che salari più alti, e non salari più bassi, almeno nelle economie più avanzate, sarebbero funzionali ad una dinamica positiva della produttività, perché agirebbero come stimolo per investimenti capital intensive e perché innescherebbero le leve distributive della crescita attraverso l’espansione della domanda aggregata. In quest’ottica, il ruolo dell’introduzione di un salario minimo in Italia, che sposterebbe in aggregato sulla quota lavoro circa 4-5 miliardi di euro (a seconda della scelta dell’importo), avrebbe un impatto macroeconomico positivo: ragionamento supportato anche dalla evidenza empirica che il livello dei salari reali in Italia è fermo dal 1992.
Infine, non è da trascurare l’impatto del salario minimo su indicatori non prettamente economici, come indicatori di qualità della vita e indicatori di salute. Economisti come Kaufman (nel 2019) mostrano come un aumento di $1 di salario minimo ha un effetto di riduzione fra il 3.4% e il 5.9% del tasso di suicidi nella classe di età 18-64 (fra i non laureati). Atri come Wehby (nel 2020) analizzano l’impatto del salario minimo sulla salute dei bambini, per il caso statunitense negli ultimi 25 anni, dove l’aumento del salario minimo determina un incremento nel peso alla nascita, e tale effetto è maggiore per le giovani madri. Sempre per il caso americano, è stato visto che un aumento di un dollaro del salario minimo aumenta del 10% la probabilità di un bambino di essere in uno stato di salute eccellente e diminuisce del 25-40% la probabilità di assentarsi da scuola per problemi di salute.
Sembra quindi che il salario minimo possa essere immaginato non solo come misura di contrasto alla povertà ma anche e soprattutto come fattore di crescita per altri indicatori di mercato. E al pari di altre misure può avere impatti anche su variabili che vanno al di là del mercato del lavoro, come la salute e il benessere degli appartenenti alla famiglia del lavoratore, con un impatto positivo sulla stessa spesa sociale. E come ho detto all’inizio, in un mercato del lavoro che in Italia sta evidenziando una sempre maggiore polarizzazione tra coloro che hanno sufficienti tutele e altri – sempre di più – che ne hanno poche o a macchia di leopardo, la soluzione errata è quella di tendere ad una parificazione verso il basso abbassando tutele e salari dei primi: una spirale non solo iniqua per le persone e per la spesa sociale ma poco efficiente e improduttiva per le stesse imprese, che oggi lamentano contrazione dei consumi e scarsità di personale qualificato.