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Una moneta debole rende competitivi i prodotti nazionali. Si esporta di più e il Pil aumenta. L’altra faccia della medaglia è la crescita dell’inflazione. La maggior parte delle materie prime si compra in dollari, un deprezzamento della moneta di un Paese nei confronti del dollaro significa un aumento del prezzo di petrolio, gas, ma anche soia e grano. Quindi più esportazioni, ma più inflazione. In teoria la mano invisibile del mercato dovrebbe attribuire alle singole monete, nel tempo, il giusto valore. In pratica le monete sono usate dai governi per alterare le relazioni economiche tra Stati. E’ quella che viene chiamata “The currency war“, o la Guerra delle monete. Il Fondo Monetario Internazionale ha cercato all’inizio di quest’anno di dare delle regole per stabilire il valore delle monete, ma è stato ignorato da tutti.
I Paesi emergenti in Sud America e in Oriente sono al centro di questa guerra, dal cui esito può dipendere la loro sopravvivenza economica e anche la nostra. Il Brasile ha reagito a un collasso nelle esportazioni, dovuto alla crescita di valore della sua valuta, il real, indebolendola. Nel 2010 il Brasile era passato, nei confronti dei soli Stati Uniti, da 15 miliardi di dollari di attivo nelle esportazioni a 6 miliardi di dollari di passivo. Per poter continuare a produrre e a esportare ha accettato un aumento dell’inflazione con tutte le conseguenze che questa comporta, in particolare un impoverimento delle classi sociali più deboli. Da almeno un anno, la Cina mantiene basso in modo artificiale il valore dello yuan contro le proteste di tutto il mondo occidentale e del Giappone che l’accusano di concorrenza sleale. Se il valore dello yuan aumentasse sensibilmente (come dovrebbe) il Pil cinese diminuirebbe con effetti catastrofici sull’occupazione. La Guerra delle Monete assomiglia a un grande Risiko dove ogni mossa provoca una reazione in ogni altra parte della mappa mondiale. In Sud America Cile, Colombia. Perù e Messico stanno nei fatti svalutando le loro monete. E’ una gigantesca corsa al ribasso con un impoverimento globale. Una guerra in cui l’Italia recita la parte del vaso di coccio tra vasi di ferro. E’ legata all’euro, il cui valore è molto superiore a quello espresso dalla sua economia, in sostanziale recessione da 10 anni. Ha un debito pubblico che si avvia a 2.000 miliardi di euro entro il 2011. Non può svalutare per migliorare le esportazioni, non può investire per il peso degli interessi sul debito (quest’anno pagheremo circa 80 miliardi di interessi, pari a quattro robuste finanziarie).
L’uscita dell’Italia dall’euro, se avvenisse, con una nuova lira e la successiva svalutazione, non cambierebbe nulla. Ci troveremmo con un’inflazione a due cifre senza esportare. I primi Paesi per esportazioni oltre alla Cina sono infatti Stati Uniti, Germania, Olanda e Giappone. Esportano innovazione e tecnologia, noi cosa esporteremmo? Non più debito pubblico e le aziende del “made in Italy” le abbiamo già esportate. Forse abbandoneremo anche la lira per lo scec, una moneta locale, cittadina, rionale, condominiale.
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