di Beppe Grillo – Quando parliamo di crisi, della nostra crisi, parliamo sempre di che effetto provochi su di noi. Ma sarebbe bello capire se questi fatti coinvolgono anche il resto del mondo.
Queste dinamiche in effetti sono così grandi che è impossibile pensare che ne subiscano gli effetti solo i diretti interessati. Sarebbe bene capire se ci siano altri attori che sono entrati in gioco.
Per cominciare la Cina ha approfittato della crisi europea e ha colto al volo la ghiotta occasione. Ha così acceduto ai mercati occidentali ben prima del previsto. Vi chiederete perché questo è importante.
Il fatto è che la Cina sta provocando un vero e proprio dilemma nell’Occidente per quello che rappresenta. Si, perché il Paese asiatico ha una disponibilità finanziaria senza precedenti e ha il mercato migliore disponibile, con un fattore di crescita senza precedenti. Non c’è Paese al mondo che non vorrebbe entrare nel mercato cinese, che solo per ricordarlo offre un mercato interno immenso. Ma la Cina è anche un Paese guidato da un regime autoritario.
Sebbene la Cina abbia ceduto lo scettro (anche se di poco) come il paese più popoloso all’India, i suoi numeri sono impressionanti. Soprattutto per il suo mercato interno. Un miliardo e quattrocento milioni di persone. Il consumo interno crescerà del 5,5% annuo per i prossimi 15 anni (si, avete letto bene). Le sole famiglie cinesi hanno speso nel 2016 (ultimo dato disponibile) circa 4.600 miliardi di dollari, cioè il 39% del PIL nazionale. Questo vorrebbe dire che nel 2030 l’economia interna cinese supererà quella dell’intera Europa.
Il ceto medio cinese sta crescendo, le famiglie a basso reddito si ridurranno enormemente, passando dal 36,9% del 2015 al 11% del 2030. Inoltre aumenteranno i big spender, cioè quegli individui che spendono cifre milionarie ogni anno. Questi passeranno dal 2,6% della popolazione al 14,5% nel 2030.
Dopo lo scoppio della crisi, il gigante asiatico ha assunto un peso enorme grazie ai suoi investimenti e alle acquisizioni, dai beni strategici ai titoli di stato dei Paesi con l’acqua alla gola. Sono molte le aziende occidentali salvate così dalla bancarotta. Oltretutto non sempre i cinesi hanno avuto vantaggi, spesso hanno acquistato sborsando somme ingenti pur di penetrare il mercato occidentale e gettare così le basi per un prossimo futuro.
La strategia di Pechino è quella di diventare uno dei Paesi a muovere i fili mondiali. Ecco perché ha colto al volo opportunità milionarie che le si sono presentate: le società energetiche in Canada e Australia, il porto principale nel Mediterraneo orientale, piccole e medie imprese tedesche e italiane leader mondiali in mercati di nicchia, ha salvato le aziende automobilistiche europee in difficoltà, ecc.
Insomma l’afflusso di denaro è stato cospicuo, soprattutto in Europa in cui gli investimenti cinesi hanno toccano quota 6,1 miliardi nel 2010 e sono arrivati a 27 miliardi nel 2012. Ad oggi sfondano i 60 miliardi di dollari.
Ma le risorse cinesi sono davvero immense, pensate che solo nel 2015 disponeva di 3800 miliardi di dollari in riserve in valuta estera. Secondo la Heritage Foundation, dal 2005 al 2014 la Cina ha investito in Europa, Nord America e Australia ben 260 miliardi di dollari, arrivando nel 2020 a investire più di 500 miliardi di dollari solo in UE.
Insomma la Cina ha piani incredibili per il futuro, e i passi in avanti sono innegabili per un Paese che solo vent’anni fa era un’immensa fabbrica di giocattoli, vestiti di scarsa qualità e gadget da due soldi.
Naturalmente l’arrivo del capitale cinese ha risvolti più che positivi per l’Occidente: crea posti di lavoro, inietta capitale fresco in aziende in affanno che fallirebbero altrimenti e rimpingua le casse pubbliche non proprio piene.
La Cina è diventata indispensabile per la nostra ripresa economica e tutti i governi si sono aperti volentieri verso il colosso asiatico, che spesso, ha rappresentato l’unica salvezza.
Ma qui arriva la parte negativa.
I governi pur di accaparrarsi i soldi cinesi, sottovalutano due questioni. La prima è che le aziende che sbarcano nei nostri mercati sono aziende statali cinesi. In pratica queste società sono al servizio del governo cinese e ad esso rispondono.
La seconda, fondamentale, è che politici, imprenditori, ecc, non vogliono vedere la capacità di influenza che la Cina sta acquistando insieme alle nostre società.
Cosa succederà quando un considerevole numero di beni occidentali sarà nelle mani aziende statali cinesi? Per esempio dopo che il primo ministro Cameron ha avuto un incontro con il Dalai Lama, Pechino ha congelato le relazioni diplomatiche per un anno e mezzo. Stessa fine della Norvegia quando ha consegnato il premio Nobel a Liu Xiaobo, dissidente cinese condannato a 11 anni di prigione per un reato di opinione.
Nel 2007 il governo cinese ha varato un provvedimento per vietare ai monaci del Buddismo tibetano, di reincarnarsi dopo la morte, a meno che il Governo Cinese non conceda l’autorizzazione apposita. Il paradossale divieto è sintomatico di un provvedimento, ben più serio, che cerca di burocratizzare le regole della reincarnazione nel tentativo di avere potere sul successore del Dalai Lama, leader spirituale e politico del Tibet.
Uno dei maggiori successi del governo cinese è stato quello di inculcare nelle élite occidentali, l’idea che non sia possibile concludere affari con la Cina se il clima istituzionale e diplomatico non è più che favorevole.
Esiste anche una terza questione. Mentre noi apriamo i cancelli e accogliamo le loro aziende, le aziende occidentali che vogliono investire in Cina devono superare una mole sempre crescente di ostacoli per accedere al mercato cinese.
Per esempio il Governo cinese ha stilato un piano industriale che vede la Cina produrre 7 milioni di veicoli elettrici all’anno, contro le poco meno 800 mila nel 2017, primo paese al mondo già da tre anni per la vendita di veicoli elettrici.
Come tutti i produttori, anche la Tesla di Musk, se vuole produrre autoveicoli elettrici in Cina, può farlo in due modi: o pagare i dazi del 25% cui sono soggetti le imprese straniere oppure creare una Joint Venture, 50-50 con un partner locale.
La seconda possibilità è molto rischiosa, perché costringe le imprese a condividere tutto il Know-How e il caso Danone-Wahaha la dice lunga.