di Matteo Cavallito – La birra, si sa, è una delle bevande più apprezzate al mondo. Popolare pressoché ovunque nelle sue infinite variazioni aromatiche, cromatiche e di gradazione, questo antichissimo risultato della fermentazione disseta e addolcisce l’umore di centinaia di milioni di consumatori. Ciò che ancora si ignorava, tuttavia, è che la sua produzione potesse generare importanti benefici per il suolo. Fino a garantire un aumento delle rese agricole. La scoperta, relativamente recente, arriva da un’équipe di ricercatori spagnoli che hanno analizzato le potenzialità dei suoi sottoprodotti a partire dai cereali esausti. Il loro utilizzo nell’industria del pet food è noto da tempo. Al pari del loro impiego nel comparto delle biotecnologie. La vera novità, spiegano però gli scienziati del NEIKER, l’Istituto Basco per la Ricerca Agricola e lo Sviluppo, consiste in una nuova e sorprendente applicazione: quella per la disinfestazione dei terreni.
L’idea è semplice: intervenire sui microrganismi del suolo per far crescere la produttività. Secondo i ricercatori il risultato può essere raggiunto utilizzando una base di letame addizionata di un paio di sottoprodotti del processo produttivo della birra: la bagassa, ovvero il residuo della macinazione dei cereali, e la colza. Questi elementi, precisa Maite Gandariasbeitia, il principale autore dello studio, “sono due potenziali trattamenti organici che hanno già mostrato risultati molto positivi in studi precedenti”. Il loro alto contenuto di azoto, prosegue, “promuove l’attività dei microrganismi benefici nel suolo, aiutando scomporre la materia organica come il letame e a uccidere i nematodi e altri parassiti che danneggiano le colture”.
Di fatto, insomma, si tratta di eliminare quegli organismi opportunistici che penetrano nelle radici delle piante per deporre le loro uova ostacolando così lo sviluppo delle colture. L’applicazione dei sottoprodotti della birra, affermano i ricercatori, avrebbe determinato dopo un solo anno un aumento della resa agricola pari al 15%.
La questione, in ogni caso, appare almeno in parte complessa. Quello dei nematodi, infatti, resta un mondo variegato. Lunghi appena qualche millimetro, tali organismi possono produrre a seconda dei casi – ma sarebbe meglio dire della specie – sia danni che opportunità. Questi minuscoli invertebrati, ad esempio, si nutrono notoriamente di batteri e funghi assumendo da essi sostanze nutritive in eccesso e rilasciandole nel suolo a beneficio delle piante. La loro capacità di scomporre la materia organica, inoltre, appare decisiva. Non è un caso che recenti studi condotti in Giappone presso la Toyohashi University of Technology si siano concentrati sull’utilizzo dell’analisi genetica per riconoscere e classificare le specie parassitarie e dannose distinguendole da quelle, per così dire, buone e utili. Le varietà di nematodi presenti nel mondo, dicono le stime, ammontano a oltre 30mila.
L’indagine spagnola è stata condotta sulle colture di lattuga e si è concentrata sulla soppressione di un nematode particolarmente dannoso per la pianta: la Meloidogyne incognita, nota anche come parassita della radice del cotone. Oltre a una maggiore produttività, sostengono i ricercatori, il suolo trattato ha sperimentato anche un aumento della presenza di microbi salutari. Un dato evidenziato “da un tasso di respirazione del terreno significativamente più alto”. I risultati raccolti aprono ora la strada alla ricerca di soluzioni basate sull’impiego di prodotti organici in contrapposizione ai disinfestanti chimici.
“La biodisinfestazione è il processo generato dall’incorporazione di emendamenti organici cui segue l’applicazione di una copertura di plastica per controllare le malattie del suolo” spiegano in proposito i ricercatori iberici. “Tra gli emendamenti, l’uso di sottoprodotti agricoli potrebbe essere un’alternativa interessante per la sua capacità di promuovere l’economia circolare”.