di Gunter Pauli – Il 12 agosto 2018, è successo qualcosa di terribile. Ad Hout Bay, alla periferia di Città del Capo, in Sud Africa, un sospetto bracconiere è stato ucciso da funzionari anti-bracconaggio. L’azione di protesta ha portato all’esplosione di diversi edifici e al saccheggio di altri.
Che cosa ha spinto la pacifica comunità a spingersi fino a questi gesti estremi?
Città del Capo è la patria dei discendenti di alcune delle prime nazioni del mondo, le culture Khoi e San. Le popolazioni indigene praticano da millenni la pesca sostenibile lungo le coste dell’Africa australe. Non è un fatto di permessi o diritti, è più un fattore culturale.
Ma ad un tratto c’è stata l’esclusione dei pescatori locali che praticano la pesca di sussistenza. Con l’aumento della domanda mondiale di frutti di mare, il governo sudafricano ha visto l’opportunità di generare ricavi “professionalizzando” il settore. Quindi ha pensato di dare in concessione le licenze alle grandi aziende che offrono garanzie di conformità. Essi sostengono che il processo è stato un’assegnazione equa e aperta delle quote. Tuttavia, sembra ridicolo pensare che dei semplici pescatori potessero gareggiare con delle multinazionali. Tra l’altro gruppi come la Black Empowerment ha ottenuto alcune licenze e storicamente l’azienda non si è mai occupata di pesca.
I pescatori con le loro piccole imbarcazioni, guadagnavano dai 500 agli 800 dollari a turno, sostenendo più famiglie. Ora si trovavano senza lavoro. Le aziende si sono mosse rapidamente e hanno offerto loro dei posti di lavoro. Un salario di appena 300 dollari al mese e solo durante la stagione di pesca.
Così i millenni di tradizioni e diritti di pesca sono stati spazzati. Il bracconaggio è diventato l’unico modo di sopravvivenza per queste famiglie.
La disperata ricerca della sopravvivenza economica, combinata con un mercato nero fiorente, soprattutto per i prodotti raccolti fuori stagione, hanno portato alla decimazione degli stock ittici, lasciando un ecosistema incapace di sostenere la domanda. Nel frattempo, il mercato locale è invaso da gamberi argentini surgelati e dal salmone norvegese, mentre il pescato locale (legale e illegale) viene esportato.
Pochi si rendono conto di come la globalizzazione abbia creato un prezzo trasparente sul mercato nero. Ciò sta portando al totale annientamento del tonno, dell’abalone e dell’aragosta nel Capo occidentale. Man mano che le fonti diventano più scarse, i prezzi aumentano, il che spinge la popolazione locale ad accelerare la sovra-raccolta, il che inevitabilmente porterà ad un crollo totale.
Abbiamo visto questo modello altrove. Agli europei piace ricordare che un tempo il Mare del Nord ospitava 20.000 chilometri quadrati di ostriche fino a quando questa risorsa naturale non è stata sfruttata fino al punto in cui gli stock hanno cessato di esistere. Nessuno allora o ora si preoccupa di rigenerare quell’ecosistema e tutti hanno imparato a vivere in acque torbide.
La Fondazione ZERI, che raggruppa migliaia di scienziati e si è concentrata sull’implementazione di modelli di business innovativi che costruiscono capitale sociale e riportano la natura sul suo percorso evolutivo, ha osservato queste crisi sociali ed ecologiche. Non esiste un’unica soluzione a breve termine, ma esistono opzioni a lungo termine che funzionano.
I passi richiedono disciplina e un approccio intergenerazionale, poiché invertire la distruzione richiede tempo.
Il primo passo consiste nel dichiarare zone no-pesca, i luoghi in cui i pesci possano riprodursi in condizioni di sicurezza. In secondo luogo, si dovrebbe vietare la pesca di femmine di grandi dimensioni in età riproduttiva. Un tonno pinna gialla ha bisogno di 10 anni per diventare fertile, e una femmina di 20 anni produce milioni di uova. Vuoi davvero ucciderla e mangiarla?
In terzo luogo, le reti sono sostituite da lenze, che consente una pesca selettiva. In quarto luogo, ogni pesce, aragosta e abalone catturato viene etichettato (una tecnica facile ed economica) quando emerge dal mare e viene rintracciato lungo la catena di approvvigionamento. Ciò controlla gli intermediari che troppo spesso imbrogliano l’intero sistema (sia le grandi imprese che i pescatori tradizionali).
Un programma analogo è stato implementato a El Hierro (Canarie, Spagna) negli anni ’90, e oggi la densità di pesce è dieci volte superiore alla media della Spagna. Un’inversione è infatti possibile, a patto che si permetta alla natura di riprendersi, da un punto di collasso catastrofico quasi totale, e che si sia pronti a costruire sulla saggezza delle culture locali.