di Elena Tioli – Mi è sempre piaciuto raccontare storie. Storie di chi molla tutto, prende e parte. Di chi stravolge le proprie abitudini, di chi cambia strada e va controcorrente. Di giovani che tornano alla terra. Di adulti che si mettono in discussione. Ma mai e poi mai avrei pensato di divenire a mia volta una storia.
E soprattutto non mi sarei mai immaginata che succedesse a causa di una scelta che un tempo avrei reputato insignificante: cambiare modo di fare la spesa.
Non sono mai stata una consumatrice consapevole, un’attivista, un’ecologista. Al contrario! Per una vita sono stata assidua frequentatrice di centri commerciali, attratta dal superfluo, con l’acquisto facile e impulsivo. Una fumatrice compulsiva, come se non bastasse. Insomma, non mi sono mai fatta troppe domande. Non ho mai riflettuto sulle conseguenze delle mie scelte. Fino al giorno in cui, per favorevole congiuntura (lo dico ora, all’epoca non lo sapevo) mi sono trovata disoccupata: senza un impiego, senza un’identità, senza una lira. In quel momento, mentre mi disperavo per aver perso qualsiasi forma di controllo sulla mia vita, ho realizzato che non era così: potevo controllare le mie azioni e ripartire da me. Per esempio, viste le ridottissime possibilità economiche, potevo smettere di buttare soldi per avvelenarmi. Così, dopo 15 anni di onoratissima carriera – a ritmi di un pacchetto di sigarette al giorno, per 365 giorni all’anno e per un costo totale di 20mila euro più o meno – da un momento all’altro ho detto basta.
Grazie a quella decisione ho percepito forse per la prima volta, il potere enorme che avevo nelle mie mani: il potere di scegliere. È stata un’illuminazione! Avete presente il criceto che corre sulla ruota? Talmente affannato nel correre da non accorgersi di non andare avanti. Ecco, smettendo di fumare è come se mi fossi accorta di essere su quella ruota. E di poter scendere, semplicemente fermandomi.
Così ho avuto il tempo di pormi delle domande e di iniziare a informarmi. Ho cominciato a leggere tantissimo: Pollan, Berrino, Moss, Mercalli, Marie-Monique Robin, Pallante e tanti altri autori che mi hanno aperto gli occhi sulle conseguenze dei miei consumi. Dopo il fumo è stata la volta del cibo, poi dei prodotti per l’igiene personale e per la pulizia della casa. Più mi informavo più comprare diventava difficile, fino al punto in cui, ho iniziato a sentirmi a disagio nei supermercati. Non vedevo più i prezzi, le marche, i colori, gli slogan sulle confezioni, ma l’impatto ambientale, sociale e sanitario di quelle merci, l’impronta ecologica, gli imballaggi e i chilometri percorsi. Sapevo leggere le etichette e conoscevo il significato di quelle paroline prima incomprensibili. Mi immaginavo le facce di chi aveva prodotto quelle cose: persone sfruttate, sottopagate o prive di diritti. Vedevo tutto ciò e non volevo più essere complice.
Con quel pensiero è iniziata la mia sfida: era il 2 gennaio del 2015 quando uscendo da un supermercato mi sono ripromessa di non entrarci più. Per un anno. All’epoca non sapevo che quel buon proposito mi avrebbe cambiato la vita. Come non immaginavo che al di fuori dai centri commerciali vi fosse un mondo tanto ricco di opportunità: persone informate e consapevoli, produttori responsabili, veri e propri eroi che ogni giorno faticano per sopravvivere a un sistema che troppo spesso premia la grande distribuzione organizzata (e scellerata) a discapito dei più piccoli e coscienziosi. Grazie a tutti loro la mia spesa è stata rivoluzionata.
Sono partita con un Gruppo d’Acquisto Solidale (GAS), poi ho scoperto mercati contadini, botteghe di quartiere, negozi in cui si compra sfuso e diverse piattaforme online che mettono in contatto diretto produttori e consumatori. Oggi conosco chi produce ciò che acquisto e so dove vanno a finire i miei soldi.
Compro perlopiù a chilometro zero e biologico, che non significa necessariamente certificato bio, quello, per intenderci, che al supermercato ha un reparto apposito, una confezione ultra chic e che di solito costa il triplo. Grazie alla filiera corta e al GAS, il biologico vero è alla portata di chiunque: venduto ancora sporco di terra e dentro una cassetta riciclata. Buono, sano e con un prezzo congruo, in grado di restituire dignità al lavoro di chi lo produce.
Scelgo cibo genuino, per lo più vegetale e integrale, di certo non industriale o raffinato; frutta e verdura di stagione, magari esteticamente non perfetta e non omologata nelle dimensioni, ma con un gusto fantastico. Alla varietà preferisco la biodiversità.
Evito quasi del tutto i derivati animali e soprattutto non compro nulla che provenga da allevamenti intensivi, una delle piaghe ambientali, sanitarie ed etiche più grandi dei nostri tempi.
Autoproduco, ma non tutto, solo le cose facili! Quelle che al massimo richiedono pochi minuti e un paio di ingredienti. Per esempio il deodorante: basta miscelare 2 cucchiai di bicarbonato, 1 di amido di mais e 10 gocce di tea tree oil per farne un barattolo. Tempo 30 secondi, costo pochi centesimi. Al posto di brillantante, anticalcare e ammorbidente uso acido citrico e acqua. E per sostituire disinfettante, smacchiatore, sbiancante e detergente uso il percarbonato di sodio, una sorta di candeggina naturale che, a differenza di quella industriale, non inquina e non fa danni alla salute di chi la utilizza.
Lo sapevate che l’inquinamento domestico fa più danni di quello esterno? Proprio così. Tantissimi prodotti che si adoperano quotidianamente per pulire casa sono in realtà veleno, per noi e per l’ambiente. Perché utilizzarli quindi se le alternative ecologiche sono anche alla portata di tutti?
Ovviamente quel che posso lo compro sfuso, riutilizzando gli stessi contenitori. Così come compro sfuso il sapone vegetale con cui sostituisco shampoo e bagnoschiuma; l’olio di mandorle, che utilizzo come struccante e idratante; il detergente per lavatrice e lavastoviglie totalmente ecologici.
Insomma faccio una spesa a bassissimo impatto ambientale e con un altissimo valore umano, che non ultimo, mi permette di risparmiare tempo e soldi.
Le code alla cassa, la ricerca del parcheggio, il percorso a ostacoli tra le corsie, i sabati pomeriggio passati al centro commerciale per me non sono che lontani ricordi. Ora gran parte della mia spesa la faccio tramite il gruppo d’acquisto: ordino comodamente online, in pochi minuti e dal mio divano e poi vado a ritirare la mia cassetta nella sede del GAS. Lì ci scappano sempre quattro chiacchiere con i compagni del gruppo o qualche produttore e così la spesa è diventata uno dei momenti più gradevoli della settimana.
Anche il mio portafoglio sorride. Molti prodotti che compro, seppur di maggior qualità rispetto a quelli della grande distribuzione, mi costano meno. Per esempio i generi di ortofrutta del mio listino del GAS sono quasi tutti più convenienti di quelli di un noto supermercato: la cicoria la pago 2 euro al chilo, al supermercato costa 2,29; le mele 2.10 euro al chilo, invece di 2,59; le carote 1.60 euro al chilo contro 2,64.
Com’è possibile? Semplice! Niente costi di intermediari, packaging, trasporti, stoccaggio e marketing… tutti aggravi che, nella grande distribuzione, pesano sul prezzo finale di un prodotto fino al 35 per cento o anche di più.
Ovviamente alcuni prodotti li pago un po’ più. Ma va bene così. Se risparmiare significa bassa qualità, tanto inquinamento, produttori strozzati dalle dinamiche della GDO e dal sistema malato delle doppie aste online, io dico: “No, grazie”.
Penso per esempio alle arance: nei supermercati un chilo si aggira su 1.10 euro, mentre i produttori vengono pagati non più di 15 centesimi al chilo. Una miseria dietro cui molto spesso si cela lavoro nero e caporalato. Io le compro a 1,26 euro al chilo, con la certezza però che quei soldi vanno quasi tutti al produttore (biologico) e ai lavoratori, in questo caso contrattualizzati e pagati dignitosamente. Insomma, nel mio piccolo sostengo un’economia diversa: più solidale, etica e giusta.
Ma se tutti facessimo come te quanti posti di lavoro si perderebbero? Lo so che lo state pensando. È una domanda che mi viene fatta spesso. Forse perché sfugge quanti posti di lavoro si perdono – e sono stati persi – a causa della grande distribuzione. Basti pensare a tutti i negozi costretti a chiudere per l’apertura dell’ennesimo centro commerciale; ai paesi in cui le saracinesche sono ormai tutte abbassate; a tutti quei contadini che si trovano sul lastrico per colpa degli standard imposti dalla GDO.
Secondo Coldiretti, in Italia dal 2007 al 2015, oltre 150mila aziende agricole hanno chiuso perché non avevano i volumi di produzione adatti alla grande distribuzione o perché avevano costi più alti dell’agricoltura industriale. Un’assurdità se si pensa che il ricarico dei prezzi sui prodotti agricoli può arrivare fino al 300 per cento a fine filiera: tradotto significa che mentre i produttori sono sottopagati, il consumatore finale deve spendere il triplo del valore di ciò che compra.
Per fortuna oggi molte persone coraggiose hanno deciso di mettersi in gioco, riscoprendo antichi mestieri e inventandosi nuove professionalità in grado di realizzare, oltre a vantaggi personali, benefici per tutti e per il pianeta. Grazie a loro tantissime realtà sostenibili, ecologiche e innovative stanno prendendo piede. Lavori legati all’agro-ecologia, alla custodia di sementi antiche, alla tutela della biodiversità e alla riqualificazione del territorio. Ma anche alle reti alimentari alternative, all’autosufficienza e alla sovranità alimentare.
Realtà da cui dipende il nostro presente e il nostro futuro e che per questo andrebbero sostenute e incentivate. Come? Anche e soprattutto attraverso i nostri acquisti. Quando si fa la spesa si influisce sull’andazzo di questo pianeta più di quanto si possa immaginare. Ogni volta che mettiamo qualcosa nel carrello stiamo decidendo chi favorire e chi boicottare. Ogni acquisto è un voto attraverso cui scegliamo in che mondo e in che modo vogliamo vivere.
Grazie a questa nuova consapevolezza oggi sono una persona totalmente diversa. Tolte le vesti della consumatrice incallita ho scoperto il piacere di scegliere responsabilmente e di conoscere le conseguenze delle mie scelte. È un piacere nuovo, che non conoscevo. Così come non conoscevo il piacere di fare a meno. Che non significa rinunciare. Significa stare meglio senza. È bellissimo! Com’è bellissimo partecipare a una comunità in cui produttori e consumatori sono dalla stessa parte e in cui le relazioni si basano sulla fiducia e sul rispetto.
Ultimo, ma non ultimo, ho assaporato il piacere di tornare a fare. Di saper fare. Che soddisfazione! L’indipendenza è rivoluzionaria. Ti fa sentire libera. Una libertà che mi ha portato a cambiare abitudini, aspirazioni e a riappropriarmi del mio tempo. Dopo aver vissuto per una vita con quel fare un po’ indifferente per cui un problema non è un problema se non è un mio problema, ho deciso di smettere di girarmi dall’altra parte. Anzi! Di impegnarmi per lottare per ciò in cui credo. Non solo per altruismo o per idealismo, ma perché ho scoperto che vivere bene mi fa star bene.
L’AUTORE
Elena Tioli, classe 1982, nata a Mirandola (Mo), romana di adozione. Dopo molti anni passati in redazioni televisive, ora si occupa di ufficio stampa e comunicazione trattando soprattutto temi legati alla politica, alla decrescita e all’ambiente. Freelance per scelta, collabora con diverse realtà ecologiche e solidali. Per passione si interessa di alimentazione consapevole e stili di vita sostenibili. È autrice del blog www.vivicomemangi.it e www.viveresenzasupermercato.it. A febbraio 2017 ha pubblicato il libro Vivere senza supermercato (ed. Terra Nuova) in cui racconta la sua avventura fuori dalla grande distribuzione organizzata.
https://www.macrolibrarsi.it/libri/__vivere-senza-supermercato-libro.php?pn=5330