di Patty L’Abbate – L’attuale modo di vivere e consumare nel mondo non è più sostenibile, ne siamo coscienti. Il Pianeta è sempre più minacciato da inquinamento, sfruttamento eccessivo delle risorse naturali e cambiamenti climatici. Una transizione verso una società più rispettosa dell’ecosistema e più efficiente dal punto di vista dell’utilizzo delle materie prime è ormai necessaria.
Solo per fare un esempio, l’estrazione di risorse naturali e soprattutto delle risorse non rinnovabili, è notevolmente aumentata negli anni (negli ultimi 30 anni, la quantità di materiali estratti per alimentare il nostro modello economico di crescita è aumentata del 60%). Un quinto di risorse naturali, dopo la trasformazione in prodotti e dopo l’uso a fine vita diventano un rifiuto inutile, ed è per questo che negli ultimi anni si sta imponendo una nuova logica di consumo basata su efficienza, innovazione, prevenzione degli sprechi, riutilizzo, riciclaggio: tutte componenti fondamentali di un’economia circolare.
Nei sistemi di economia circolare i prodotti mantengono il loro valore aggiunto il più a lungo possibile e i rifiuti si riducono al minimo. Quando un prodotto raggiunge la fine del ciclo di vita, le risorse restano all’interno del sistema economico, in modo da poter essere riutilizzate più volte a fini produttivi e creare così nuovo valore.
Tale modello di sviluppo, anche se solo recentemente tornato alla ribalta nel dibattito mondiale, ha radici lontane, e risale alle intuizioni, tra gli altri, di Georgescu Roegen, Giorgio Nebbia e Barry Commoner, autore quest’ultimo del libro “Il cerchio da chiudere”: era il 1971 e questo biologo marino americano già teorizzava la circolarità dei processi naturali, che si concludono e poi ricominciano, a differenza delle tecnologie produttive odierne, che utilizzano in prevalenza processi lineari, il cui esito sono accumuli e disequilibri. Sempre negli anni ’70 del secolo scorso l’ecologia, prepotentemente, inizia ad affacciarsi come realtà di cui tener conto, e si afferma come elemento presente nel dibattito pubblico. Nel 1970 il Consiglio d’Europa proclama l’Anno europeo della conservazione della natura, e due anni dopo le Nazioni unite annunciano la prima grande conferenza mondiale sull’ambiente.
Dalle intuizioni di Commoner è trascorso quasi mezzo secolo, il che la dice lunga sul ritardo accumulato dall’umanità nell’avvio di un nuovo modello economico circolare, più green e maggiormente rispettoso dell’ecosistema. La natura non conosce rifiuti, affermava lo studioso. Le trasformazioni naturali sono alimentate dall’energia del sole, la materia rientra sempre nel ciclo e viene riutilizzata. Le sostanze chimiche estratte dall’aria, dall’acqua e dal terreno ritornano in circolazione, ridiventando materie prime per altri cicli naturali. Purtroppo, dinanzi alle trasformazioni umane, cariche di inquinamenti e attività sovversive, i cicli naturali si trasformano, e da chiusi si fanno aperti. I rifiuti aumentano a tal punto che la natura non riesce ad assimilarli tutti, conducendo il sistema al tracollo. È per questo che gli interventi volti a ristabilire la circolarità della natura sono oggi più urgenti che mai.
L’Italia ha realizzato nel 2018 la piattaforma Italiana degli attori per l’Economia Circolare, detta ICESP, speculare all’europea ECESP, con l’obbiettivo di promuovere l’economia circolare favorendo l’integrazione delle iniziative a livello italiano e diffondendo le eccellenze nazionali a partire dalle tradizioni e dalle tipicità nazionali e dai relativi modelli culturali, sociali ed imprenditoriali. Sin dalla sua istituzione ho seguito personalmente i gruppi di lavoro che rientrano all’interno dell’ICESP, confrontandomi, ancora oggi, con tutti gli attori italiani che vogliono perseguire l’obiettivo dell’economia circolare, dai cittadini alle aziende, dalle associazioni alle università, dalle Pubbliche amministrazioni ai ministeri. Su questa piattaforma tutti quanti possono lavorare insieme e condividere buone pratiche, idee innovative e strategie, anche attraverso specifiche azioni dedicate.
Il 3 dicembre scorso in Senato, ho ospitato la prima conferenza ICESP, erano presenti circa 200 stakeholders del settore. Intorno a quel tavolo il mondo delle imprese, le istituzioni della ricerca e la società civile si sono confrontate con esperienze, criticità e prospettive in tema di economia circolare: ecodesign, progettazione e appalti pubblici sostenibili, marchi e certificazioni ambientali, limitazione degli sprechi alimentari, incentivi economici e fiscali esistenti per favorire la circolarità, la ricerca e l’ecoinnovazione.
All’interno dell’ICESP ho portato il mio background di ricercatrice e di membro attivo dell’Associazione Internazionale degli Economisti Ecologici (ISEE) e dell’Associazione scientifica Rete Italiana LCA, partecipando al gruppo di lavoro su Strumenti di policy e governance e portando il mio contributo al report pubblicato successivamente.
La consapevolezza che la transizione verso un’economia circolare richiede un cambiamento strutturale, sia sugli individui che sulle imprese. Per poter innescare una vera transizione, infatti, non basta recepire le quattro direttive europee, ma è necessario coinvolgere tutti gli attori e i soggetti che hanno un ruolo fondamentale in questa transizione. La partecipazione di tutti gli stakeholder, la condivisione e l’elaborazione di buone pratiche, di approcci integrati, è l’unico modo infatti per spianare la strada alle politiche sostenibili che la politica ha il compito di promuovere. Ai principi base dell’economia circolare dovranno essere aggiunti, dunque, altri tre principi: il principio di equità circolare, il principio di accesso circolare, il principio dell’abilità circolare.
Una via di salvezza, dunque, esiste ancora. Ma per sostenere questa trasformazione è necessario mettere in pratica interventi urgenti capaci di richiudere i cicli naturali. La necessità, avvertita dalla comunità internazionale, è quella di far nascere una filiera inversa, capace di sostenere le piccole e medie imprese, e non solo i produttori ma anche i trasformatori, le aziende di servizi. È necessario, per realizzare ciò, mettersi in gioco per evitare che si continui ad avere una visione “a blocchi” e ad agire per “compartimenti stagni”. È giunto il momento di fare un salto in avanti, formare coscienze biosferiche per supportare il viraggio dal capitalismo in declino ad un modello economico circolare ecologico, collaborativo e inclusivo. Tutto ciò può essere possibile adottando un approccio sistemico che tenga conto della complessità del sistema produttivo, economico e sociale.
Proprio quest’ultimo aspetto, quello sociale, è sovente sottovalutato. Il valore aggiunto dell’approccio sistemico alla materia deve passare necessariamente, oltre che per un’analisi delle cause principali delle nostre sfide ambientali (i rifiuti, le emissioni inquinanti e il depauperamento del capitale naturale) anche nelle cause principali delle nostre sfide sociali: la povertà, il disagio sociale, la distribuzione equa delle risorse. Se vogliamo che il cerchio si chiuda, per allinearsi con gli ecosistemi naturali nei quali non esistono rifiuti e povertà, si dovrà in futuro ottimizzare il “valore circolare”, una nuova misura che incorpora la dimensione sociale. Ambiente e società sono due facce della stessa medaglia, ed è per questo che la soluzione complessiva al problema richiede un approccio integrale per combattere la povertà, per restituire la dignità agli esclusi e nello stesso tempo per prendersi cura della natura.
La grande sfida che l’Italia, assieme ai Paesi maggiormente industrializzati, si troverà ad affrontare nel prossimo decennio sarà quella di rispondere in modo adeguato ed efficace alle complesse dinamiche ambientali e sociali, mantenendo allo stesso tempo la competitività del sistema produttivo. È necessario, dunque, mettere in atto un cambio di paradigma capace di dare l’avvio ad una nuova politica industriale finalizzata alla sostenibilità e all’innovazione in grado di incrementare la competitività del prodotto e della manifattura italiana, ripensando al modo di consumare e fare impresa.
I temi legati all’inquinamento dell’acqua, dell’aria e del suolo devono essere urgentemente affrontati, puntando fortemente alla riduzione della contaminazione di acqua e suolo, all’integrazione di sostanza organica nei terreni a rischio desertificazione, alla prevenzione del conferimento di rifiuti in discarica, alla riduzione delle emissioni e all’efficientamento energetico.
La parola chiave in questo processo è quella di “capitale naturale”.
Il capitale naturale può essere definito come l’intero stock di asset naturali, organismi viventi, aria, acqua, suolo e risorse geologiche che contribuiscono a fornire beni e servizi di valore, diretto o indiretto, per l’uomo e che sono necessari per la sopravvivenza dell’ambiente stesso da cui sono generati. L’inefficiente gestione del capitale naturale si verifica spesso, perché il suo pieno valore non si riflette nei compromessi politici e nelle scelte economiche. È evidente che l’ottimizzazione dell’economia circolare non può che avvenire attraverso la contabilità del capitale naturale, ossia calcolando la quantità di stock di risorse non rinnovabili e i flussi delle rinnovabili che fornendo servizi eco-sistemici sostengono la società, l’economia e la vita sul nostro pianeta.
Soltanto attraverso una base di conoscenze, sviluppate effettuando una valutazione chiara del capitale naturale (la c.d. “contabilità ambientale”), sarà più facile valutare in modo ottimale i giusti ingredienti di opzioni di politiche per riuscire ad effettuare una vera transizione da un’economia brown-lineare ad una green e circolare. Sarà questa la prossima sfida da affrontare, ovvero la necessità di ripensare, oggi, al concetto stesso di “sostenibilità”, non solo in chiave ambientale, ma bensì a 360 gradi, intesa questa come anche economica, sociale e culturale.