di Elena Tioli – Lo chiamano il terzo mare, il Salento, una macchia verde e rossa che si staglia tra il mar Ionio e l’Adriatico. Terra di ulivi, di miti e leggende. Oggi, purtroppo, terra di barricate, veleni e grandi battaglie in difesa dell’ambiente ma anche e soprattutto della salute di chi vi vive.
Mi sono imbattuta nella questione Xylella per la prima volta a gennaio del 2017 quando per lavoro ho assistito a un convegno sull’argomento. A margine dell’evento ci hanno accompagnato in alcuni uliveti in cui il disseccamento era ormai avanzato: da un lato del sentiero si estendevano piante visibilmente ammalate e sofferenti, ma dall’altro erano verdi e sane. Com’era possibile? Si trattava del risultato di alcune sperimentazioni di agricoltura simbiotica. La questione, così come il Salento, la sua gente e i suoi ulivi, mi hanno da subito appassionata. Perciò ho iniziato ad informarmi e a approfondire.
A maggio ho lasciato il lavoro e mi sono trasferita per oltre due mesi in quella terra. Volevo saperne di più. Così ho scoperto che in quel piccolo e meraviglioso triangolo di mondo che va da Lecce, a Brindisi e arriva quasi fino a Taranto c’è un popolo impegnato a lottare su tanti (troppi) fronti. Contro le tante devastazioni ambientali e sanitarie che si stanno perpetuando in quelle zone. Contro il consumo di suolo, la speculazione e la peggior forma di turismo predatorio degli ultimi anni. E contro una tragedia silenziosa che da tempo sta consumando quei luoghi: la strage degli ulivi autoctoni.
Ho fatto interviste, video, raccolto varie testimonianze: agricoltori, sperimentatori, professori e docenti universitari, dirigenti, associazioni e molti altri ancora. Ho ascoltato personalmente i pareri di Silvio Schito, attuale Dirigente dell’Ufficio Osservatorio Fitosanitario di Bari; Emilio Stefani, docente all’Università di Modena-Reggio Emilia (tra i principali esperti di Xylella in Europa); Giusto Giovannetti, direttore scientifico CCS Aosta e Responsabile progetto BiCC; Lorenzo Ciccarese, Ispra; Alberto Ritieni, docente Università di Napoli; Vincenzo Longo, ricercatore IBBA-CNR Pisa; Roberto Polo, presidente dell’Associazione Salento Sostenibile; Luca Carbone, Ph. D. in Fundamental Ecology; Francesca Casaluci, tra i fondatori della rete Salento Km0; Giovanni Seclì, presidente del Forum ambiente salute; Antonio Manni, tra i fondatori del frantoio Agricola Le Serre; Daniela Comendulli, tra i soci fondatori della cooperativa biologica Amrita e Alessio Garantina, agricoltore presso la stessa. Ho provato a farmi un’idea di ciò che stava succedendo e, soprattutto, ho visto con i miei occhi. Piante secche, incendi e desolazione mi hanno accompagnata per chilometri e per settimane. Ho pianto vedendo alberi maestosi appassire in quel modo.
A settembre 2017 Terra Nuova ha pubblicato un mio pezzo sull’argomento, lo riporto in parte qui oggi per provare nel mio piccolo a dar voce a chi di certo avrebbe qualcosa da dire a Martina e al suo sciagurato Decreto che in questi giorni sta costringendo agricoltori e cittadini a cospargere di pesticidi campi, strade e giardini: con tutto ciò che ne consegue per la salute pubblica, la vita degli animali e la tutela dell’ambiente (Qui, per esempio, si può leggere il parere dell’ISDE: Pesticidi dannosi per l’ambiente e per la salute umana non possono essere imposti per legge). Alla faccia del principio di precauzione!
A chi sentenzia che questi fitofarmaci siano la soluzione, vorrei dire, che c’è un’altra versione: ci sono voci che meriterebbero di essere ascoltate, studi autorevoli che dovrebbero essere considerati, luoghi che dovrebbero essere difesi… c’è una terra che chiede rispetto e un popolo che ha diritto di combattere per la propria salute e di vivere in maniera dignitosa.
Ma andiamo con ordine e partiamo dall’inizio. È l’ottobre del 2013 quando per la prima volta si sente parla di xylella in Salento. Un gruppo di studiosi facente capo al Cnr di Bari comunica il ritrovamento di diversi agenti patogeni associati al fenomeno di disseccamento dell’olivo “tra questi – si legge nella Deliberazione della Giunta Regionale del 29/10/2013 – la presenza di funghi e di un patogeno da quarantena, Xylella Fastidiosa, batterio al quale potrebbe essere attribuito un ruolo importante nei disseccamenti dell’olivo, inserito nella lista A1 dell’EPPO (European and Mediterranean Plant Protection Organization)”. Un mese dopo l’Italia comunica all’Unione Europea lo scoppio di un’epidemia di Xylella. Per contrastarla la Regione Puglia approva immediatamente drastiche “Misure di emergenza per la prevenzione, il controllo e l’eradicazione del batterio da quarantena Xylella Fastidiosa associato al complesso del disseccamento rapido degli ulivi” in linea, dicono dalla Regione, con la Direttiva UE.
Abbattimenti delle piante infette, ampio intervento fitosanitario per il controllo dei vettori, trattamento con insetticidi su piante ospiti, pulizia accurata dei canali, dei prati e delle zone libere… Misure pesanti sulle quali poco dopo l’Unione Europea mette il carico da novanta con l’imposizione di rimuovere non solo le piante ospiti del batterio Xylella, ma anche tutte quelle situate in un raggio di 100 metri attorno alle piante infettate, indipendentemente dal loro stato di salute. In pratica si parla di abbattere 4 ettari per ogni pianta colpita, a prescindere dal contagio o meno. “È l’unico modo per arrestare l’epidemia” dichiarano le istituzioni, che da anni ormai fanno melina sullo scarico di responsabilità, ma sbandierando sempre con molto fervore, all’occorrenza, il “ce lo chiede l’Europa”.
Peccato che l’Europa lo chieda sulla base dei documenti forniti dall’Italia. In particolare sulla base degli studi che arrivano da Bari dove, dal 2014, il comitato tecnico-scientifico istituito dalla Regione Puglia e composto da Cnr di Bari, Istituto agronomico mediterraneo di Bari, Università di Bari e Centro di Ricerca, Sperimentazione e Formazione in Agricoltura Basile Caramia di Bari sta approfondendo gli aspetti connessi alla gestione dell’emergenza fitosanitaria causata dalla Xylella. Proprio da qui giungono anche gli studi che a marzo 2017 hanno portato l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (Efsa) a dichiarare che sia la Xylella Fastidiosa, sub-specie Pauca del ceppo CoDiRO la causa del disseccamento rapido dell’olivo.
“A gestire la vicenda Xylella sono sempre stati solo i 4 istituti di Bari e lo hanno fatto in maniera verticistica e monopolistica, impedendo di fatto un approccio sistemico al fenomeno. Per questo la comunità salentina è così scettica e diffidente nei confronti di questi studi – afferma Giovanni Seclì, presidente del Forum Ambiente Salute – Perché vietare ad altri enti o istituti liberi e indipendenti di indagare in maniera autonoma sul complesso del disseccamento? Perché ostacolare la libera ricerca scientifica? Possibile che quella di Bari sia una verità inconfutabile assunta da tutto il mondo scientifico? Noi come Forum abbiamo fatto un appello per richiedere una ricerca scientifica plurima e indipendente”. Dalla Regione controbattono che non è affatto così. E comunque “nessuno prima d’ora conosceva la Xylella, né in Italia né in Europa” ad affamarlo è Silvio Schito, attuale Dirigente dell’Ufficio Osservatorio Fitosanitario di Bari.
In realtà qualcuno che nel nostro Paese si occupava da tempo di Xylella c’era. Per esempio il professor Emilio Stefani, membro italiano delegato dal Servizio Fitosanitario Centrale del Ministero delle Politiche Agricole a rappresentare l’Italia al Panel EPPO (Agenzia Intergovernativa che si occupa di standard fitosanitari, ndr) che iniziò a interessarsi di Xylella fastidiosa nel 1990, quando un ricercatore francese che stava esaminando barbatelle di vite di provenienza italiana lanciò l’allarme. La Commissione Europea finanziò allora un progetto al gruppo di ricerca dove all’epoca lavorava Stefani. I risultati di due anni di ricerca, monitoraggio, sorveglianza sul territorio comprovarono l’assenza di Xylella in Italia. Nel frattempo, il gruppo di ricerca francese confermò l’errore diagnostico. Oggi però in Puglia la situazione è diversa e a confermarlo è lo stesso Stefani. Non solo a causa della natura particolarmente aggressiva del patogeno, della sua modalità di diffusione attraverso comunissimi insetti vettori molto mobili (come le sputacchine) o della totale mancanza di qualsivoglia agro-farmaco per una lotta diretta al patogeno, ma anche per l’iniziale impreparazione degli addetti ai lavori ad affrontare correttamente la situazione, oggi l’emergenza c’è eccome.
In alcune zone della provincia di Lecce non si riesce a scorgere un ulivo verde per chilometri. Tanti alberi secchi, bruciati, ma anche tanti altri capitozzati o con i rami mozzati. Cos’è successo qui? Lo chiediamo allo stesso Schito che ci racconta come nel 2015 l’Osservatorio Fitosanitario di Bari, messo alle strette dalla decisione della procura, decide di imporre pesanti potature agli ulivi nelle zone a rischio. “Quando la procura ci ha impedito di emettere ingiunzione di abbattimento siamo stati costretti a cambiare le misure fitosanitarie e per diminuire la capacità di inoculo delle piante chiedemmo potature pesanti sapendo però che, agronomicamente, si trattava di un sistema da non incentivare e da non consigliare a nessuno – ammette oggi Schito – oltretutto lo abbiamo chiesto nel periodo estivo ossia il meno indicato per fare simili potature. Fu un ripiego, non una misura scelta con presupposti tecnici o teorie supportate… La Commissione Europea ci diceva di abbattere, noi non potevamo farlo quindi abbiamo suggerito queste potature e loro hanno detto va bene. Ma una misura di quelle non l’avrebbe proposta nessuno dal punto di vista tecnico”. Insomma, di nuovo, il solito “ce lo chiede l’Europa”. Ma su che basi non è dato saperlo e i punti interrogativi rimango. Anche perché, a detta di molti esperti e coltivatori, quest’azione non ha fatto altro che peggiorare le cose.
Un ulivo che subisce questo genere di tagli, infatti, a lungo andare muore perché la potatura pesante porta la pianta a sfruttare tutte le sue risorse interne fino all’esaurimento, fino a creare situazioni di stress. A spiegarcelo è Alessio Garantina, agricoltore presso la cooperativa biologica Amrita, che non solo si è rifiutata di estirpare le piante o di utilizzare sostanze chimiche ma che ha anche detto no alla rimozione dei rami secchi: “Abbiamo volontariamente evitato potature per verificare la reazione della pianta. Ovviamente i nostri ulivi sono stati aiutati, ma attraverso le buone pratiche che da sempre portiamo avanti. E i risultati si vedono”.
“Cosa sarebbe successo se il Tar non avesse accolto il nostro appello? – si chiede Daniela Comendulli, tra i firmatari del primo ricorso presentato contro le eradicazioni e le irrorazioni con pesticidi a tappeto – Sarebbe successo che noi e tutte le aziende biologiche dal 1 aprile 2015 avremmo dovuto chiudere bottega, lasciare a casa tutti i lavoratori e abbandonare un progetto che va avanti da quasi trent’anni”. Mentre lo dice Daniela ha l’angoscia negli occhi. “Eppure qui quest’anno si farà la raccolta. Perché non vengono a chiederci come abbiamo fatto? Com’è stato possibile?”. Glielo chiediamo noi e la risposta ci lascia l’amaro in bocca. “Non è la Xylella che ammazza gli ulivi è il dio denaro, un’agricoltura scellerata, una produzione intensiva, irrispettosa della natura e dei suoi ritmi – ci dice Daniela – il primo vero batterio patogeno siamo noi, è l’uomo. Queste sono piante secolari, chissà cosa potrebbero raccontarci, chissà a cosa sono sopravvissute. Ce la faranno! È solo questione di tempo”.
E forse il problema è proprio questo: il tempo. L’Unione Europea pressa. Arrivano sanzioni. Gli abbattimenti tardano. E poi tempi lunghi significano meno produttività, meno guadagni… e invece oggi in tanti hanno fretta. Fretta di abbattere, tagliare, bruciare. E reimpiantare. Nuove specie, che crescono in fretta e che producono tanto. Velocemente. Non c’è più il tempo per la raccolta a mano, per la spremitura a freddo, per le chiacchiere sotto gli ulivi o dentro i frantoi (luoghi di cultura, li definiscono alcuni). Non c’è più tempo per i vecchi rituali, per aspettare la crescita lenta di specie antiche.
Oggi la soluzione più rapida per molti si chiama Favolosa. Nome tecnico (e molto meno rassicurante): FS-17. Una cultivar brevettata dal Cnr e quindi soggetta a licenza, che però promette faville: resistente alla Xylella, auto-fertile, non ha bisogno di impollinatori, fruttifica in poco tempo, può essere utilizzata in impianti ad alta densità. La raccolta è semplice, meccanizzata, super produttiva. Veloce. L’esclusiva ad oggi è stata ceduta a tre vivai che hanno facoltà di moltiplicare e vendere le piante di FS-17 dando però una royalty al Cnr che, in totale, “compreso l’equo premio per l’inventore”, è del 10% del costo delle piante commercializzate. Costo che negli ultimi mesi è lievitato di quasi il 200%. E gli agricoltori? Presi dalla disperazione, quasi al collasso, piegati da perdite pesantissime, vedono già come una manna dal cielo la “pianta salvatrice” e il via al rimpianto, a causa del quale, però si porterà a compimento la radicale modifica dell’intera fisionomia dell’olivicoltura pugliese. Perché da ulivi centenari e millenari di varietà autoctone (la Cellina di Nardò e l’Ogliarola Leccese) e coltivati con metodi tradizionali, si passerà a coltivazioni intensive e super intensive su larga scala.
“Da almeno 20 anni si discute di questo. E grazie alla Xylella forse ora ce la faranno – a non gioire è Seclì, presidente del Forum Ambiente Salute – È dagli anni ’90 che si parla dello sradicamento degli ulivi autoctoni per sostituirli con intensivo e super intensivo, con cultivar che avrebbero portato l’olivicoltura a livello di piantagioni. Adesso è la Favolosa, fino a poco tempo fa era la Lecciana”.
La lecciana è una specie brevettata dalla società spagnola Agromillara che, nel dicembre 2013, quando la Xylella già devastava il Salento, stipulava con l’Università di Bari un accordo di ricerca su “Valutazione, brevettazione e commercializzazione di nuove selezioni di olivo da olio” per cui l’Università si assicurava il 70% delle royalties. “Se si mettono insieme i pezzi e si ricostruisce quanto accaduto negli ultimi anni, allora ecco che si arriva a una lettura della vicenda Xylella o del disseccamento un po’ più ampia e differente di quella che vorrebbero far passare. Qui si tratta di una trasformazione radicale e interessata dell’olivicoltura salentina” continua Seclì. Il problema è che qui gli ulivi non sono solo una coltura ma una vera e propria cultura: “Tutti, qui, li sentono come parte di una grande famiglia, della nostra storia”. Ed è vero.
Che un ulivo in Salento non sia solo un ulivo si percepisce in ogni frase, in ogni parola. “Sono la mia vita…” dice Enzo Marzano, coltivatore diretto di quarta generazione, classe ‘55, occhi tristi mentre guarda il suo gigante di Felline, un’ogliarola di 1600 anni sotto cui lui e la sua famiglia sono cresciuti: “Già i miei bisnonni coltivavano queste terre. È grazie a loro se mio padre, che non aveva nulla, è riuscito a far studiare cinque figli”. Oggi il suo gigante è stremato: rami secchi, nessun fogliame, solo la lontananza delle altre piante fa percepire quello che doveva essere il diametro maestoso della sua chioma. Sul tronco pende un numero, il 10, quello dei campioni. E lui di certo campione lo è stato. “Questo è uno degli ulivi più vecchi della zona, quello lì di fianco invece è più giovane, ha solo 800 anni”; solo…
Quel numero in realtà indica la sperimentazione: “Inizialmente ci hanno consigliato di tagliare al di sotto della parte malata. Poi le potature pesanti. Io intanto ho provato con vari prodotti: argento, zinco, pesticidi, fitofarmaci. E poi ancora endoterapie (meglio che lo spieghi in una o due parole perchè non si capisce cosa sono), sia italiane che spagnole. Tutto inutile. Gli esperti hanno continuato a susseguirsi ma non c’è stato nulla da fare”. Per questo anche per Marzano, ormai disperato, reimpiantare pare essere l’unica soluzione: “Non mi importa quali ulivi. Basta che siano ulivi”. Ma non tutti la pensano così.
Ma non tutti la pensano così. “Tanti salentini non meritano il luogo in cui vivono, non lo difendono, non restituiscono la bellezza che hanno ricevuto in dono, non proteggono la terra che li sostiene” a parlare è Francesca Casaluci, tra gli ideatori del progetto Salento Km0, una rete che raccoglie oltre 40 realtà che propongono un’agricoltura e un’economia diversa, capace di migliorare le condizioni ambientali e sociali del territorio “e non di distruggerlo come in molti hanno fatto e vorrebbero fare – spiega Francesca – La vicenda del disseccamento degli ulivi ci sta dicendo che niente è per sempre e che si può perdere qualcosa che sembrava eterno in men che non si dica. Ma soprattutto ci sta mostrando le fragilità di un sistema agricolo ed economico orientato esclusivamente alla produzione e al profitto”.
Gli fa eco Antonio Manni, tra i fondatori del frantoio Agricola Le Serre, uno degli ultimi frantoi salentini che fa spremitura a freddo con metodo tradizionale. Una vita dedicata all’olio. Per lui queste nuove varietà di cui si parla non sono altro che una finta soluzione: “Si tratta di specie che hanno bisogno di parecchia irrigazione e qui non c’è acqua. Varietà a drupa grossa, deboli, che necessitano di molte sostanze chimiche e la nostra terra è già abbastanza provata. Niente a che vedere con gli ulivi autoctoni salentini con frutti piccoli e resistenti, meno appetibili agli insetti, meno bisognosi di acqua e anche meno onerosi. E poi chi l’ha detto che le varietà che oggi sembrano essere resistenti tra qualche anno lo saranno ancora?”.
Se lo domanda anche Daniela Comendulli, tra i soci fondatori della Cooperativa biologica Amrita: “Qui si è rotto un equilibrio! Possibile che nessuno vada a indagare sul motivo reale per cui si è rotto? Che senso ha reimpiantare nuove varietà? Oggi si chiama Xylella ma domani ci sarà qualcos’altro perché il problema è sistemico, non sintomatico. I batteri stanno reagendo a un ambiente non più consono. Gli alberi stanno andando in sofferenza… la natura ci sta mandando dei segnali. Cosa vogliamo fare?”.
Non c’è tempo neppure per farsi queste domande. “E invece questo sarebbe proprio il momento di farsele queste domande! Possibile che non ci si renda conto? Stiamo perdendo tutto. La nostra ricchezza, l’oro del Salento, rischia di sparire per sempre, sostituito da chissà che cosa – quasi urla Giuliana Mastroleo, dell’Associazione Malachianta, nata nel 2016 per tutelare i piccoli produttori, proteggere gli ulivi, riqualificare il territorio e ridare dignità a questa terra – Lo sa che quando abbiamo fatto le analisi del terreno questo presentava sostanza organica pari a zero? Un terreno morto! Cosa mai potrà crescere in un terreno morto? Com’è possibile che si sia ridotta così la nostra terra? Queste sono le domande da farsi”.
In effetti i numeri lasciano sbigottiti. Nel comune di Alezio (Lecce), per esempio, le sostanze nutritive del terreno hanno il valore di 0,936. Nel deserto del Sahara il valore è pari a 1, per dire. E non è difficile intuire che questa sia la situazione generale. Basta leggere i cartelli che nei campi salentini crescono come – e più – dei funghi: c’è scritto “Zona avvelenata”. Il messaggio è chiaro.
Qui l’uso di diserbanti, fungicidi e concimi sintetici è pratica ordinaria. Lievitata maggiormente a causa dell’arrivo della Xylella. Negli uliveti non c’è verde. Lo chiamano effetto-Attila. Significa che sono state spruzzate talmente tante sostanze chimiche che non vi cresce più neanche un filo d’erba. E questo è un problema che, insieme all’abbandono dei campi, ha provocato una situazione allarmante.
“Il suolo è ricco di microrganismi che popolano gli strati più alti del terreno nel quale vivono le piante. Molti di questi sono indifferenti, ma molti altri hanno rapporti con l’apparato radicale delle piante, vivendo sul tessuto, oppure entrando all’interno delle radici stesse”. A spiegarcelo è il ancora una volta il professor Emilio Stefani, del Servizio Fitosanitario Centrale del Ministero delle Politiche Agricole.
Le comunità microbiche associate alle piante svolgono un ruolo fondamentale per il loro sviluppo, aumentando la loro capacità di assorbimento e la biodisponibilità di elementi minerali. Inoltre favoriscono processi di degradazione di sostanze organiche utili, migliorano la struttura dei suoli, contribuiscono a una maggiore idratazione del terreno e questo rende più tolleranti le piante alla siccità. E ancora: stimolano numerose reazioni fisiologiche dei tessuti vegetali migliorandone la crescita e la produttività; attivano meccanismi cellulari di allerta rendendole più tolleranti all’attacco di svariati patogeni e, ultimo ma non ultimo, rendono l’ambiente interno ed esterno delle piante più difficilmente colonizzabile da parte di un patogeno. In partica, secondo Stefani, “una ricca e differenziata comunità microbica presente nella rizosfera rende molto più difficoltosa l’eventuale colonizzazione di un patogeno, mantenendo una stabilità ottimale dell’agro-ecosistema. Al contrario, una comunità microbica nel suolo o nella pianta molto povera dal punto di vista quantitativo e, soprattutto, della biodiversità, è molto meno attiva nel contrastare l’improvviso ingresso nella comunità di un agente patogeno alieno, come può essere Xylella Fastidiosa”.
A tradurre questo concetto in pratica è un gruppo di ricercatori e coltivatori locali che, sotto la responsabilità scientifica di Giusto Giovannetti, fondatore e direttore del Centro Colture Sperimentali di Aosta, sta portando avanti una sperimentazione basata appunto sull’utilizzo di consorzi microbici. Tra i pionieri del progetto c’è Luca Carbone, Ph. D. in Fundamental Ecology, e Roberto Polo, dell’Associazione Salento Sostenibile: “Sulla Xylella si è detto tutto e il contrario di tutto ma si è fatto poco. Io credo che la scienza si dibatta con la scienza, non con la politica. Da agricoltore ho sempre conosciuto l’importanza della fertilità del suolo e della interconnessione delle piante con il territorio in cui sorgono, al di là della specie. Per questo, nel 2014, vedendo come si stavano mettendo le cose ho pensato di rivolgermi a un microbiologo, di esperienza trentennale”.
Così nasce la collaborazione che da Aosta porta in Salento il professore Giovannetti e che da vita alla sperimentazione denominata Bicc, Bio contrasto al CoDiRo. Il metodo è semplice: si inocula nel terreno un biota microbico in grado di indurre una resistenza e di contrastare l’occupazione dell’apparato vascolare da parte del patogeno. “Avete presente quando il medico dopo un ciclo di antibiotici consiglia di assumere integratori e fermenti lattici per ripristinare la flora batterica e rinforzare il microbioma intestinale indebolito dai farmaci? Ecco noi stiamo facendo una cosa del genere con il terreno…” ci spiega Polo.
“Noi non ci occupiamo del patogeno in sé – chiarisce Giovannetti – noi ci occupiamo della situazione di debolezza della pianta che permette al patogeno d’inserirsi”. Si tratta di un metodo che già ha funzionato su altre piante da frutto e altre tipologie di patogeni “per esempio con batteriosi del pero in Emilia Romagna”. Ma soprattutto si tratta di un approccio coerente con le misure stabilite dal Programma Sviluppo Rurale Puglia 2014-2020 (che mirano al ripristino della fertilità dei suoli) e in linea con l’ultima frontiera della ricerca internazionale. Basti pensare che nei soli Stati Uniti tra il 2012 e il 2014, sono stati spesi ben 920 milioni di dollari in ricerche sul microbioma, umano e non.
La sperimentazione sui campi salentini inizia nel marzo 2016 con 6 aziende pari a circa 12 ettari comprensivi ma grazie ai risultati positivi, attualmente la sperimentazione copre circa 64 ettari di oliveto, coinvolgendo 41 aziende agricole distribuite su tutta la provincia di Lecce e con notevoli differenze l’una dalle altre relativamente alle dimensioni, alla composizione del suolo, alla fertilità, alla risorsa idrica, alla localizzazione, all’esposizione e alla pressione del patogeno Xylella. A gennaio 2017, quando sono state effettuate le prime analisi specifiche di laboratorio, i risultati erano buoni e in linea con la percezione visiva. Basta visitare uno dei campi soggetti alla sperimentazione, infatti, per vederne gli effetti. “Le piante trattate riprendono vita e mostrano capacità di rispondere al patogeno – commenta Giovannetti – e questo significa solo una cosa: che l’ulivo avrebbe la capacità di difendersi ma che non è in grado di esprimerla, perché si trova in una sorta di depressione. Ripristinando il biota si mette la pianta in grado di reagire da sola”.
“Quando abbiamo iniziato a curare il suolo le piante hanno iniziato a reagire positivamente. I risultati si possono vedere e toccare con mano. adesso in questo terreno c’è vita” afferma fiducioso Giovanni Mancarella, piccolo coltivatore di Trepuzzi (Lecce). Ben di altri numeri ci parla Giulio Seracca Guerrieri, proprietario di oltre 800 ettari di terreno, dei quali 200 di ulivi. Siamo a Nociglia, in provincia di Lecce, qui la Xylella è arrivata più tardi, un paio di anni fa: “Quando l’abbiamo riscontrata ci siamo trovati in una situazione di panico e di totale abbandono. Ci arrivavano minacce da più parti. Volevano che estirpassimo tutto. Ci siamo impuntati, abbiamo fatto ricorsi, ci siamo improvvisati sperimentatori… nel mio campo per esempio sono state fatte varie sperimentazioni. Tra queste anche una del distaccamento dell’Università di Bari. Ma nessuno è arrivato a nulla e quasi tutti hanno abbandonato”. Sul suo terreno rimangono tutt’ora i segni dei vari passaggi: inoculi, potature pesanti, innesti, flebo che penzolano dai rami… “Solo con i microrganismi le piante hanno iniziato a reagire e a rispondere alla malattia. Tra tante cose che abbiamo provato questa è stata l’unica che ha dato qualche effetto, almeno a livello vegetativo” sottolinea Saracca.
E ancora Rocco Attanasio, contadino di Taurisano (Lecce) che, racconta, che da quando ha messo da parte la chimica, ha iniziato a fertilizzare in modo naturale, a lasciare l’erba a terra, a utilizzare consorzi microbici e a riscoprire antiche tradizioni, le sue piante sono tornate verdi. “Un verde intenso, anche nel mese di giugno, quello più critico”. La normalità, fino a pochi anni fa. Ora motivo di grande felicità. “Mi preparo a raccogliere le olive di quegli stessi ulivi che erano dati per spacciati” dice eccitato. Di fianco al suo campo il disseccamento ha ormai toccato ogni ramo, “anche i miei erano così, e oggi invece… Certo ci vuole tempo, nessuno ha la bacchetta magica, ma c’abbiamo impiegato decenni per distruggere e avvelenare tutto, per fare di queste terre un deserto, per ridurre questi alberi secolari in macerie… e adesso ci aspettiamo la magia in un attimo? Non funziona così. Serve tempo. Dobbiamo dar loro la possibilità di salvarsi. Gli spetta di diritto”.
Il punto probabilmente è proprio questo. Il Salento oggi è a un bivio: da una parte sradicamenti, pesticidi, brevetti, reimpianti e nuove produzioni intensive, dall’altra l’ultimo disperato tentativo di salvare la fertilità dei suoli, le specie autoctone e la cultura che le connota. Ma anche e soprattutto il lavoro di molti e la salute di tutti. Oggi diverse realtà – associazioni, agricoltori, apicoltori, supportate da numerose realtà extraregionali e da migliaia di cittadini delle province di Lecce, Brindisi e Taranto – hanno firmato un documento congiunto di disobbedienza al decreto Martina e ai trattamenti fitosanitari obbligatori (lo si può leggere qui).
“Questa terra – si legge nel comunicato – ha una salute già fortemente compromessa e non lasceremo che venga avvelenata ancora di più. Qui si stanno ignorando dati epidemiologici già impressionanti e che sono arcinoti a tutti, in primis alle istituzioni. Chi vive in questo territorio e ne conosce l’affanno non permetterà che questo accada. Insomma nessuno pensi di poter provare a spacciare per acqua fresca l’impiego smisurato di fitofarmaci. Conosciamo gli effetti dell’esposizione a queste sostanze, da anni documentati da autorevoli studi dell’Organizzazione mondiale della sanità e non solo… Non si può costringere un popolo ad autodistruggersi – concludono – Disobbedire al decreto non è solo un gesto di civiltà ma anche una questione di sopravvivenza”.
Insomma che il problema xylella non riguardi solo un batterio da sterminare è quanto mai palese: qui si parla di sanità pubblica, di diritti e di futuro. Di rispetto per la terra e per gli esseri viventi che la abitano.
Articolo integrale pubblicato su Terra Nuova, settembre 2017
L’AUTORE
Elena Tioli, classe 1982, nata a Mirandola (Mo), romana di adozione. Dopo molti anni passati in redazioni televisive, ora si occupa di ufficio stampa e comunicazione trattando soprattutto temi legati alla politica, alla decrescita e all’ambiente. Freelance per scelta, collabora con diverse realtà ecologiche e solidali. Per passione si interessa di alimentazione consapevole e stili di vita sostenibili. È autrice del blog www.vivicomemangi.it e www.viveresenzasupermercato.it. A febbraio 2017 ha pubblicato il libro Vivere senza supermercato (ed. Terra Nuova) in cui racconta la sua avventura fuori dalla grande distribuzione organizzata.