di Marco Bella – L’altro giorno il mio vicino era con il suo cane nel campo dietro casa. Non c’era nessuno nel raggio di almeno 100 metri, tranne me che lo vedevo dal tetto, eppure indossava una mascherina. Solo un mese prima, la stessa persona era accalcata in un supermercato senza prendere alcuna precauzione.
Prima delle restrizioni, la probabilità di prendersi il coronavirus era la più alta possibile, soprattutto in un luogo affollato, dato che il virus si trasmette proprio attraverso la vicinanza sociale. La mascherina chirurgica protegge gli altri da noi, non certo chi la porta. L’OMS non raccomanda un uso delle mascherine per tutta la popolazione, perché non ci sono evidenze scientifiche chiare che questo porti benefici.
Soprattutto, la mascherina in un campo aperto ha un’utilità pressoché nulla.
Perché allora il mio vicino si preoccupava per qualcosa che aveva probabilità bassissima di verificarsi, mentre non ha percepito il pericolo reale quando si è messo in una situazione davvero a rischio?
Questo comportamento potrebbe essere spiegato con la nostra incapacità di valutare correttamente le probabilità, come illustrato dalla “Teoria del prospetto” degli psicologi israeliani Kahneman (premio Nobel 2002 per l’economia) e Tversky.
In un grafico mettiamo sull’asse verticale la probabilità percepita di un dato evento e su quello orizzontale la probabilità reale. Ora, in una situazione ideale le due grandezze coincidono e sono rappresentate dalla retta tratteggiata. Che cosa succede però nel mondo reale? Che le persone inevitabilmente tendono a sopravvalutare l’eventualità che un evento davvero improbabile accada, e viceversa tendono a sottovalutare le chances reali di un evento invece probabile (la linea curva rossa). Così, il vicino di casa prendeva l’estrema precauzione della mascherina nel prato dietro casa, dove la probabilità di incontrare il coronavirus è davvero bassa, mentre nel supermercato affollato non aveva considerato di essere davvero esposto al contagio.
Il rischio percepito varia anche molto in funzione di quelle che sono le conseguenze. Un mese fa molte più persone di oggi ritenevano il COVID-19 una banale influenza, mentre dopo aver visto la fila di bare a Bergamo la percezione è profondamente cambiata. C’è quindi un effetto di rafforzamento di questa distorsione cognitiva quando la probabilità bassa porta a conseguenze molto gravi e la probabilità alta a conseguenze percepite come lievi.
Questo modello si potrebbe applicare anche al perché condividiamo le fake news, nonostante molti di noi ritengono che si tratti di informazioni provenienti da fonti inattendibili. Se prendiamo ad esempio la notizia che un dato trattamento possa curare il COVID-19 (e ne abbiamo viste tante in questi giorni), molte persone tenderanno a condividerla perché gli effetti negativi (dare visibilità mediatica a chi la cerca) non sono considerati della stessa entità degli effetti positivi (mettiamo al sicuro il Paese dalla crisi economica, torniamo alla nostra vita, salviamo la vita alle persone). Ecco che cosa fa scattare il meccanismo “non ci credo ma la condivido”.
Come proteggersi allora dai nostri stessi pregiudizi, soprattutto in un momento in cui è davvero fondamentale valutare in modo corretto la probabilità? La soluzione potrebbe essere di assumere iniziative personali solo quando si hanno le conoscenze il più possibile complete sull’argomento specifico. Perché valutare le nostre conoscenze non è facile. Ad esempio, uno studio indica che aver semplicemente cercato un dato argomento sui motori di ricerca, addirittura senza averlo trovato, aumenta la fiducia in noi stessi.
Insomma, evitiamo di giocare agli scienziati credendo alla cura miracolosa, perché così si faranno solo danni senza portare alcun beneficio. Ascoltiamo le indicazioni dell’OMS sulle mascherine. Alla fine, gli scienziati cognitivi hanno solo riscoperto Socrate quando affermava “So di non sapere”.