di Patty L’Abbate – La “labricoltura” è il processo che produce carne in laboratorio, coltivata in fabbriche o carneries; con vari brevetti concessi per la produzione commerciale e diverse startup innovative, questo settore sta prendendo piede nella nostro mercato.
Anche se siamo ancora lontani da una commercializzazione su larga scala, la carne prodotta in laboratorio sta progredendo rapidamente, sia in termini di ricerca e sviluppo che di chiarezza normativa.
La Labriculture effettuata con tecniche di coltura cellulare, ha catturato l’attenzione di consumatori e imprenditori, per la sua promessa di offrire carne autentica da degustazione evitando di passare dall’ allevamento e dai processi di lavorazione come la macellazione del bestiame, che risultano essere fortemente impattanti sull’ambiente.
Le preoccupazioni ambientali associate all’allevamento tradizionale o intensivo che genera emissioni di gas climalteranti, ad oggi responsabili di circa un quarto dell’attuale riscaldamento globale, sono una forte leva per indirizzare i consumatori ad incrementare la cosiddetta “consumer acceptance” (accettazione dei consumatori) verso la carne coltivata in laboratorio.
Come si ottiene?
La formazione del tessuto muscolare portante per la carne coltivata è un processo a più fasi che inizia con l’isolamento delle cellule miosatellite da un campione di tessuto animale donatore. Ogni fase è modellata come una coltura di sospensione a partita singola che ha luogo all’interno di un bioreattore agitato.
Dato che il settore è molto giovane, gli studi di valutazione dell’impatto ambientale (LCA) disponibili, relativamente alla carne coltivata in laboratorio sono piuttosto esigui e incompleti. Dalla letteratura esistente possiamo comunque effettuare delle valutazioni sulla sostenibilità dei processi con cui si ottiene la carne in laboratorio e compararla alla carne ottenuta con il tradizionale allevamento. La carne ottenuta in laboratorio ha un suo punto critico: la produzione di supporti di base, ossia i mezzi di coltura che contengono amminoacidi prodotti sinteticamente in una serie di passaggi che iniziano con la produzione di mais, seguono con la macinazione, la saccarificazione dell’amido di mais a glucosio, e si concludono con la fermentazione del glucosio stesso. Questi passaggi necessitano di energia e se questa è ottenuta da fonte fossile abbiamo in associazione emissioni climalteranti.
Anche con l’allevamento abbiamo bisogno di energia nelle varie fasi per arrivare ad ottenere la carne che portiamo in tavola, e dal confronto la carne di manzo necessita di più energia della carne di laboratorio ed abbiamo forti emissioni di metano, seguono la carne suina e il pollame. Calcolando anche l’impronta ecologica, ossia quanto suolo è necessario per la produzione di carne, la produzione di carne in laboratorio utilizza solo l’1% del terreno richiesto dal bestiame e la terra liberata potrebbe essere utilizzata per la produzione di energia pulita o il sequestro del carbonio con la fotosintesi clorofilliana. In altri termini, liberando suolo, la produzione di carne in laboratorio potrebbe avere globalmente un impatto netto decisamente positivo rispetto al suo competitor.
In conclusione, un numero consistente di ricercatori sostiene che la carne coltivata in laboratorio sia un’ottima tecnologia e che il suo ingresso nel mercato contribuirà alla contrazione dell’impatto ambientale del settore delle proteine di origine animale; rappresenterà una soluzione al problema della fame globale, promuoverà la salute umana eliminando gli effetti nocivi dei grassi saturi e dei patogeni, alleviando allo stesso tempo le preoccupazioni etiche associate alle operazioni di allevamento intensivo. Sebbene alcune di queste affermazioni potrebbero dimostrarsi corrette, attualmente non vi sono chiare prove scientifiche di supporto.
I risultati suggeriscono che la coltivazione di biomassa in vitro potrebbe richiedere quantità minori di input agricoli e terra rispetto al bestiame; tuttavia, questi benefici sono accompagnati da un elevato consumo di energia utile per sostituire le funzioni biologiche come la digestione, la circolazione dei nutrienti negli equivalenti processi industriali.
Il settore della carne coltivata in laboratorio è un sistema controllato che offre ampie opportunità di ulteriore ottimizzazione e con il progresso delle biotecnologie e dell’energia pulita, la produzione di carne coltivata diventerà sempre più efficiente e sarà quindi in grado di contribuire alla risoluzione di molte delle problematiche emergenti. Al contrario, nel medesimo periodo di riferimento, il guadagno di efficienza nella produzione di carne convenzionale è stato marginale poiché è biologicamente limitato, specialmente nei ruminanti.
Altri benefici da considerare nella produzione di carne coltivata rispetto alla produzione convenzionale sono: l’eliminazione dell’uso di antibiotici per la produzione di cibo, l’eliminazione delle zoonosi ottenuta riducendo l’intensità dell’allevamento, la risoluzione delle questioni etiche e morali associate all’allevamento del bestiame, che saranno in futuro sottoposte ad un controllo sempre crescente da parte dei consumatori. Infine un ulteriore fattore rilevante da considerare è il fabbisogno idrico, visto che con il cambiamento climatico la siccità sarà un problema crescente nel medio e lungo periodo, la carne coltivata in laboratorio risulta essere un ottima alternativa.
A questo link è possibile scaricare lo studio completo
L’AUTORE
Patty L’Abbate – Parlamentare della Repubblica Italiana del Movimento 5 Stelle. Come capogruppo della 13ª Commissione permanente Territorio, Ambiente, Beni ambientali, è stata relatrice del decreto Clima. Ricercatrice nel campo della sostenibilità, da molti anni è membro dell’associazione internazionale degli Economisti Ecologici (ISEE) e dell’associazione scientifica Rete Italiana LCA. Docente a contratto in Management delle risorse naturali e delle energie rinnovabili.