di Nicola Ferrigni – Piaccia o no, lo si denigri o lo si condivida – e al di là della talvolta sterile boutade politica – il Reddito di Cittadinanza rappresenta per il nostro Paese una tra le più incisive e rivoluzionarie riforme del Welfare State degli ultimi decenni.
E a mio avviso poco rileva, in questa sede, ribadire il ritornello (seppur vero e sacrosanto) del Paese “Calimero” che l’introduzione del RdC ha finalmente fatto uscire dalla condizione di “diversità” rispetto al resto dell’Europa.
Superfluo, perché si rischierebbe ancora una volta di continuare a discutere del RdC secondo una logica da derby calcistico tra il partito dei “sì” e quello dei “no”.
Come il calcio, infatti, anche il RdC tende a spaccare in due l’opinione pubblica: da una parte i “supporter”, per cui si tratta di una riforma centrale perché restituisce dignità alle persone, perché è la manovra anti-povertà più stravolgente che abbiamo avuto negli ultimi 20 anni, perché favorirà la formazione e l’inserimento nel mondo del lavoro, e così via. Dall’altra parte, gli ostinati sostenitori del “no”, i quali riducono la manovra a strumento che induce alla pigrizia, istiga alla furbizia, mette a nudo il lato più oscuro dell’“italianità”.
Ma, ahi loro!, quanto alle furbizie ci ha pensato già la Legge 26/2019, quando ha posto vincoli che permettono al furbetto di non farla franca.
Nell’ultimo anno, tuttavia, a tanto “vociare” – e io stesso sono testimone di ciò, perché non c’è stata trasmissione televisiva cui sono intervenuto che non abbia registrato un perfetto clima da “Processo del Lunedì” – non è tuttavia corrisposta quella dose di “silenzio” necessaria per ascoltare il “non rumore” che ha caratterizzato il RdC dopo la sua introduzione.
Eravamo infatti abituati a un RdC “rumoroso” per definizione: un reddito che è stato invocato nelle piazze, acclamato a furor di popolo (e di urne), accolto quasi con incredulità quando esso è diventato, e in tempi record per la politica italiana, legge dello Stato. Al contrario, dopo la sua introduzione il RdC sembrerebbe essere apparentemente passato dalla dimensione del suono a quella del silenzio, tanto più difficile da spiegare perché, come dicevo in apertura, siamo di fronte alla più incisiva riforma del nostro Welfare State. Una vera e propria “rivoluzione culturale” per il nostro Paese, come l’ho più volte definita in numerosi confronti televisivi.
Perché dunque il RdC non sta più facendo rumore?
Perché politici e media hanno smesso di parlarne? Non direi, visto che non c’è settimana in cui questo tema non sia al centro dell’agenda. Perché i numeri hanno disatteso le attese? Anche in questo caso, la risposta non può che essere negativa, visto che i dati dell’Osservatorio statistico dell’Inps parlano, ad oggi, di 982mila nuclei familiari beneficiari del RdC, ossia – si badi bene – circa 2.200.000 persone coinvolte. Eppure, eppure… sembra far più rumore l’esercito delle Partite Iva, dei pensionati, degli 80 euro e non il milione di famiglie finora coinvolte dal Reddito di Cittadinanza.
Perché, dunque? A mio avviso c’è un aspetto che fin qui non è stato mai considerato quando si parla di RdC, e che rappresenta invece il punto centrale della questione, ovvero chi sono i beneficiari del reddito. Ora, non c’è dubbio che essi siano quelle persone che si trovano in condizioni di estrema necessità, e per le quali il RdC rappresenta non soltanto un supporto di carattere economico, ma anche – e forse soprattutto – uno strumento in grado di riappropriarsi della propria dignità. Ma proprio questo è il punto: il vero bisognoso, il padre di famiglia che non riesce a prendersi cura della propria famiglia, il giovane costretto a vivere dell’aiuto dei propri genitori (quando possibile), l’esodato che non si sente più lavoratore ma che non è ancora pensionato, chi ha perso la casa e si trova costretto a vivere in macchina… insomma, quelli che purtroppo siamo soliti semplicisticamente definire come “gli ultimi”… ebbene, queste persone vivono per definizione (e al di là del fatto che si tratti di una scelta o di una necessità) una condizione di assordante silenzio, dettato dal pudore, dalla dignità, dalla vergogna, dalla paura.
Chi ha realmente bisogno, dunque, non urla né piange e, allo stesso modo, non plaude a voce alta né festeggia. Non lo fa personalmente, e non ha sindacati o categorie di rappresentanza che lo fanno al suo posto. Chi vive nell’agio vive come un vanto il fatto di consegnare la propria carta di credito per pagare il conto del ristorante.
Chi vive invece nel bisogno, il percettore del RdC, custodisce nel segreto delle proprie mani quella carta gialla che, con tanta sensibilità, il Movimento 5 Stelle ha imposto fosse visivamente non distinguibile da un normale BancoPosta. Il silenzio, dunque, è la cifra distintiva del beneficiario del RdC, che tutti noi dobbiamo impegnarci affinché non venga raccontato come una condizione di sconfitta sociale, bensì come una opportunità di rilancio sociale.
Attenzione, dunque, a interpretare questo silenzio come un’assenza di parole. A essere venuto meno è infatti, forse, quel rumore che tanto piace ai media, perché molto dice e poco parla.
Ma forse, sarà proprio questa assenza di rumore a consentirci di comprendere appieno la portata della rivoluzione culturale e sociale che il Reddito di Cittadinanza porta con sé.
Ben venga dunque oggi il silenzio, se questa è la condizione per avere voce (voce, si badi bene, non rumore) domani.
L’AUTORE
Nicola Ferrigni– Sociologo, Professore Associato di Sociologia. Esperto di politiche sociali e del lavoro. Autore del libro “REDDITANZA. Il Reddito di Cittadinanza raccontato dai giornali e percepito dai cittadini”